venerdì 27 febbraio 2015

LA BATTAGLIA DI ROTTERDAM

La rabbiosa esultanza di De Rossi sotto la curva del Feyenoord
Dopo aver fatto praticamente tutto quello che volevano a Roma, i tifosi del Feyenoord hanno perso una grande occasione per ripulire la loro immagine. Se l’andata è stata disastrosa, il ritorno forse è stato anche peggio. Quello che i fans olandesi hanno creato nella Capitale è, anzitutto, figlio di errori italiani: zero prevenzione, zero intervento, solo manganellate a giochi ampiamente fatti, qualche fermo ma ‘tornate a casa senza problemi’. Giochi già fatti ed opere d’arte ampiamente vandalizzate. Sono stato un tifoso anch’io, ho vissuto la curva anch’io (nel basket, ok, ma sempre curva è) e, salvo rarissimi casi, sono sempre stato dalla parte delle tifoserie. Sinceramente, quella del Feyenoord non rappresenta per nulla il mondo ultras. Guai ad associarli perché si butta fango ingeneroso su un movimento mondiale che si fonda su ben altri principi. Scontri, tafferugli, voci e cori sono una cosa, vandalizzare monumenti di una città è altra: non c’è giustificazione e l’Italia farebbe bene a prendersi la sua parte di responsabilità. Chiunque arrivi qui, fa quello che vuole tanto sa che, tolta qualche ora in guardiola, poi torna sereno a casa. Salvo poi daspare per anni, tifosi italiani che non fanno nulla. Questa è l’Italia, terra di conquista per serbi, croati, sloveni, olandesi e chiunque voglia alzare un po’ la cresta visto che, nel loro paese, vengono immediatamente colpiti. I tifosi olandesi sono stati chiamati in tutti i modi, scegliete voi il vocabolo preferito tanto uno vale l’altro: vederli in azione per le via di Roma è stata una vergogna. Il ritorno, anche, si consegna alla storia: prima il trattamento indecente riservato ai tifosi romanisti giunti in Olanda e schedati neanche fossero appena usciti da Regina Coeli, poi la partita su un campo di battaglia (forse anche per la pioggia ed il clima da tregenda). Dalla banana di gomma all’indirizzo di Gervinho fino alla sospensione del match per lancio di… tutto, anche ombrelli giustamente. E’ stato un inferno che, chiunque ami il mondo delle tifoserie, non potrà mai dimenticare. 
I tifosi olandesi vandalizzano la Barcaccia a Piazza di Spagna
Non si tratta di condannare qualcuno, basta solo guardare quello che hanno fatto. Prima vandali, poi razzisti. Da essere umano non posso che indignarmi sperando che, almeno le Autorità olandesi, facciano qualcosa. E, ripeto, il movimento ultras non c’entra con queste persone. Sarò retorico? Probabilmente sì, ma stavolta il mio pensiero è comune e non va controcorrente per partito preso. Stavolta è stata una vera indecenza. In quello stesso stadio, nel 2000, abbiamo buttato un Europeo già vinto. Adesso l’abbiamo conquistato perché non bisognava essere romanisti (e non lo sono) per essere felici. Bastava essere italiani per gioire davanti all’impresa dei giallorossi contro un club che, in appena una settimana, ha fatto vedere tutto il suo lato negativo. Da italiano che ha visto le sue bellezze vandalizzate (poco c’è da salvare in questo paese, almeno difendiamolo) gioisco per l’eliminazione degli olandesi. Ed ora, giustamente, le partite di Europa League se le vedranno in ciabatte sul proprio divano. Quanto mi è piaciuta l’esultanza di DDR sul primo gol. Veramente bella, veramente da chi ama la sua squadra e la sua città


Camillo Anzoini

L’ATLETICO SCIVOLA NELLA TRAPPOLA DEI BLACKHAWKS

Una fase del match al Palamaggiò (foto Tanaka)
PTM BLACKHAWKS      54
ATLETICO PKH             53

PTM BLACKHAWKS: Di Monaco 19, Pastore 7, De Mauro 6, Lapis 8, Potenza 2, Tedesco, Capasso 3, Padula 7, Pascariello 2, Porto, De Luca, Greco. All. Esposito.
ATLETICO PKH: Pezzella, Landolfo, Stellato, Argenziano 7, Mazzariello 2, Iodice 11, Laudisio 6, Anzoini, Romitelli, Ranieri 3, Visone 22, Baccaro 2.
ARBITRI: Camerlingo e Alfieri.
PARZIALI: 13-14, 25-27, 39-36.

Si ferma nella Reggia del Palamaggiò la striscia di vittorie consecutive dell’Atletico PKH (targato GoldwebTv, Caserta Drink Øl, GoldBetCafè, Centro Genesis, T&T Impianti e Copynet) che scivola al cospetto dei PTM Blackhawks, terza forza del girone e, sempre più, splendida realtà del campionato. I giovani bianconeri di coach Esposito, grazie ad un’eccellente prova nella ripresa, fanno il classico sgambetto ai rossoblù che continuano ad avere nei PTM una vera bestia nera. Partita tirata, combattuta, nervosa quella giocata nello splendido scenario di Pezza delle Noci: vittoria, tutto sommato, meritata per i giovani bianconeri che hanno giocato la loro pallacanestro fatta di velocità, agonismo e cattiveria agonistica. Cosa che non è mancata al PKH che, nonostante una nuova buona prova difensiva, stavolta è stato tradito da un attacco dove il solo Visone ha visto il canestro con continuità. Nota di merito ai rossoblù che, andati sul -7 a neanche 2’ dalla sirena, hanno avuto la palla della vittoria senza, però, riuscire proprio a scoccare il tiro. L’arbitraggio molto british ha consentito un gioco duro che, alla fine, ha premiato i bianconeri. L’Atletico si lecca le ferite ma, almeno, salva il doppio confronto e, comunque, era chiamato ad espugnare Piedimonte Matese, all’ultima giornata, per vincere il girone. I piani, dunque, non cambiano molto.

LA CRONACA. Di Monaco si presenta con una bomba ma l’Atletico è concentrato e molto aggressivo in difesa: in attacco ci pensa Visone a dare il vantaggio sul 5-10. I rossoblù faticano a segnare ma grazie alla difesa restano avanti nonostante i cinque punti di Pastore (stoicamente in campo nonostante una caviglia malconcia). La partita s’innervosisce col passare dei minuti: pagando dazio in centimetri e chili, i PTM Blackhawks aumentano la pressione difensiva ed i contatti in vernice, l’arbitraggio consente questo tipo di difesa ed il PKH perde il filo del discorso. Gli ospiti sbagliano tanti tiri aperti mentre i locali cominciano a trovare punti pesanti da Lapis, Capasso e Padula. Iodice ed Argenziano sono gli unici a segnare nel secondo quarto ma il PKH è avanti di 2 alla pausa lunga. La musica cambia nella ripresa: i rossoblù sbagliano tutto in attacco mentre, in difesa, non riescono a tenere il pick ‘n roll fatto da Di Monaco coi lunghi De Mauro e Padula. Lo schema funziona benissimo, il PKH difende male e Di Monaco infila due bombe (10 punti nel quarto) che mettono la freccia del sorpasso. La volata parte da lontano: Lapis sgancia due siluri tagliagambe (47-41 al 36’) ma Visone è incandescente. Nel momento del bisogno, però, i PTM Blackhawks scappano via con tre punti di Padula e due liberi, pesantissimi, segnati da De Mauro. Sembra finita sul 52-45 al 38’ ma qui l’Atletico dà fondo a tutte le sue energie nonostante l’incredibile serie di tiri sbagliati dalla lunga distanza. Visone segna e difende alla morte, stesso dicasi per Argenziano e Laudisio che viene defraudato di un gioco da 3 punti sacrosanto sul 54-51: per gli arbitri non era azione continuata ed assegnano solo due liberi che la guardia segna per il 54-53 a 34” dalla sirena. Di Monaco e Pastore fanno 0/4 dalla lunetta e ci sono ancora 4” da giocare. Laudisio ha la palla della vittoria ma si schianta contro il muro bianconero. Suona la sirena ed è festa grande per i PTM Blackhawks.

martedì 24 febbraio 2015

LA MIA VITA TRA PICCOLI GIGANTI

Rosaria con tutte le persone della sua vita per la ginnastica
Quando il mio caro amico Anzoini mi ha contattata per parlarmi del blog ‘OLTRE L’ULTIMO SECONDO’, spiegandomi quali fossero le ‘intenzioni’ in merito al progetto, ero felice che avesse pensato anche a me.
Non vi dico il sorriso che ho fatto quando lui, per darmi un’idea migliore di quello che mi stesse parlando, mi ha citato i Pearl Jam e il motivo per cui il loro primo album si chiamasse proprio ‘Ten’.
(Lo sapevate che il nome dell'album deve le proprie origini al numero di maglia del giocatore di basket Mookie Blaylock?)
Nel frattempo che mi ‘illuminava’ su ciò, io ero già vicina al pc a cliccare il tasto ‘mi piace’ alla pagina e a leggere qualche pezzo.
Ovvio che, nel momento in cui mi ha proposto di scrivere un articolo, non me lo sono fatta ripetere due volte. 
Perché quando si tratta di parlare di sport provo sempre una certa emozione.
Sarà perché quando ero bambina, i miei primi passi si associavano a quelli della danza (a 5 anni ho iniziato a praticare la ginnastica artistica e ritmica) oppure perché ho approfondito le mie conoscenze con lo studio (sono laureata in Scienze delle attività Motorie e Sportive e sono molto prossima alla laurea specialistica in Scienze della Formazione nel corso di Laurea Magistrale in Scienze della valutazione motoria-sportiva e tecniche di analisi e progettazione dello sport per disabili) o, ancora, perché possedendo il diploma di Tecnico Societario ottenuto presso la FGI Federazione Ginnastica d’Italia (federazione sportiva nazionale riconosciuta dal CONI) e svolgendo l’esperienza presso l’associazione sportiva dilettantistica ‘New 7° Cerchio’, nello specifico per la ginnastica artistica e la ginnastica aerobica, ho avuto modo di relazionarmi con giovani atleti e ho potuto osservare i differenti aspetti che caratterizzano il mondo sportivo.
Svolgere questa attività di tirocinio formativo all’interno di un’associazione è stata un’esperienza molto significativa. Confesso che essere un’ex ginnasta mi ha aiutato molto dato che il contesto in cui mi sono trovata non mi era nuovo, anzi, è stato molto facile approcciare con i giovani ginnasti dei diversi gruppi e delle diverse categorie.
I gruppi sono principalmente 2 dove, nel primo, troviamo bambine che, generalmente, partono dai 4 anni ma possono variare con l’età e sono quelle che hanno un primo contatto con lo sport in generale.
Il secondo gruppo, invece, varia la suddivisione all’interno degli atleti: vi sono le Allieve che vanno dagli 8 ai 10 anni, poi ci sono le Junior A (dagli 11 ai 14 anni) e le Junior B (dai 15 ai 17 anni) ed infine la categoria Senior (dai 18 anni in su).
Varia è anche la suddivisone delle categorie di gara che caratterizza ogni fascia di età: individuali femminili e maschili, coppie miste, trio e gruppo.
In questo tirocinio ho osservato e affiancato il tutor formativo Sergio Bellantonio durante le sue prestazioni, potendo, in questo modo, verificare da vicino tutte le nozioni apprese durante la fase teorica del corso.
Relazionarmi con gli atleti di età differenti mi ha fatto comprendere quanto sia bello, ma allo stesso tempo delicato, lavorare con loro poiché sono in fase di crescita, realizzando che, specialmente l’adolescenza, è da considerare come un periodo molto importante.
Inoltre, ho ritenuto fondamentale assumere un atteggiamento nei loro confronti basato sull’ascolto, sull’accoglienza e sulla comprensione.
Per questi motivi, oltre a concentrami alla spiegazione degli esercizi durante le diverse fasi di allenamento, ho assunto un atteggiamento aperto all’ascolto, al dialogo e al confronto.
Perché, molto spesso, per dare maggiore importanza alla prestazione si dimentica l’aspetto umano che, in particolare per loro che sono così giovani, ritengo sia fondamentale.
Durante ogni lezione ho osservato con diligenza e interesse i loro comportamenti, i loro atteggiamenti, le loro ansie ma anche la loro gioia, il loro piacere e il loro divertimento mentre praticavano questo sport.
Ho cercato, quindi, di stabilire una relazione empatica con i soggetti e ho provato a capire i segnali di agitazione e frustrazione, cercando di indirizzarli verso stimoli positivi per poter raggiungere gli obbiettivi durante gli allenamenti.
Rapportarmi in questo modo è stato utile per comprendere le motivazioni che spingono tutti ad allenarsi. Ho potuto constatare che praticano la ginnastica spinti non solo dalla passione, ma anche per lo svago, per il divertimento e, cosa a mio avviso fondamentale, per la salute e per i rapporti di amicizia che si instaurano tra loro che li sprona ad aiutarsi uno con l’altro e anche per capire e conoscere quali sono i propri risultati quando partecipano alle gare.
Immaginate cosa possono provare questi ragazzi così giovani quando partecipano alle gare.
Una serie di sentimenti contrastanti che sono tutti, indistintamente, da prendere altamente in considerazione. Sensazioni come paura, apprensione, ansia, le lacrime per la delusione o per la gioia.
Ho potuto apprezzare la ‘fatica’ di questo lavoro dovuto al carico emotivo che, necessariamente, accompagna ogni relazione che si viene ad instaurare, il riuscire a fronteggiare situazioni che, appunto, evocano emozioni e sentimenti anche a livello personale.
Posso dirvi che ho trovato questa esperienza bella. Ma bella davvero.
E non solo dal punto di vista formativo che, indubbiamente, ha agevolato maggiormente le mie scelte professionali e quindi ha contribuito significativamente nelle mie scelte future, ma parlo soprattutto dal punto di vista umano.
Perché confrontandomi con un mondo diverso come quello dei minori, che con certezza posso definire mai scontato e banale, ho avuto anche modo di mettermi alla prova e di comprendere la mia persona, di riflettere su me stessa e quindi di auto osservarmi.
Ne è uscito fuori che stare a contatto con gli adolescenti e i bambini è qualcosa di meraviglioso, che mentre gli stai insegnando un qualcosa, automaticamente, impari anche tu.
Riprendi in considerazione valori che da adulto un po’ dimentichi come la fiducia e il rispetto.
E, soprattutto, non rimani indifferente all’affetto che ti dimostrano in poco tempo.
Immaginatevi la scena di tante piccole pesti che vengono incontro correndo e fanno ‘a gara’ a chi deve abbracciarti per prima.
Io, onestamente, non ve la so spiegare tanta felicità.


Rosaria Ambretti

lunedì 23 febbraio 2015

GAETANO E GIACINTO

Gaetano Scirea con la maglia della Nazionale
Gaetano Scirea era l’emblema, il simbolo, di quello stile Juventus che si è perso nel corso degli anni tra scandali e altro. Giacinto Facchetti era il capitano della grandissima Inter che dominava in Italia, Europa e Mondo sotto il presidentissimo Moratti. Gaetano Scirea era il libero della Nazionale che vinse il Mundial ’82: il suo assist di tacco, nel secondo gol di Tardelli in finale con la Germania, resta una gemma incastonata nella storia del calcio italiano. Giacinto Facchetti perse la finale di Mexico ’70 contro l’invincibile Brasile, ma ha corso quella fascia sinistra senza sosta a testa alta e fiera. Come faceva sempre Gaetano (mai espulso in tutta la sua carriera, un record). Due difensori dai piedi buoni, dal grande carisma anche senza alzare la voce. Due anime diverse dai calciatori moderni, figli dei campi impolverati e dei palloni in cuoio a pezze nere. Due difensori, due italiani, lo stesso modo di vivere lontano dalla ribalta, esempi positivi della nostra nazione. Ecco, Gaetano e Giacinto sono la storia del calcio italiano per tanti motivi, non solo per tutti i trofei che hanno alzato nel cielo. Hanno dato l’esempio di come ci si comporta in campo e fuori: mai sopra le righe, sempre posati, sempre composti ed educati. Due veri galantuomini. 
Giacinto Facchetti, capitano
degli Azzurri
Gaetano e Giacinto, poche parole, tanti fatti, tanta personalità. Bandiere vere delle loro squadre. Un calcio vecchio stile che anche chi, come me era troppo piccolo o doveva ancora nascere, prende a modello. Due esempi positivi di un calcio che non c’è più e non tornerà. Due padri amati e compianti dai loro figli, e questa è una medaglia al valore ancora più grande rispetto ai trionfi sportivi. Gli Stadio, band bolognese, hanno saputo dare voce e musica a questi due personaggi unici con una canzone fantastica che non tutti conoscono. E’ giusto dare spazio a quelle parole. Gaetano e Giacinto esempi positivi del calcio italiano, campioni e signori. Uomini d’onore. Se ne sono andati via troppo presto, Scirea veramente troppo dannatamente presto, ma il loro ricordo è sempre vivo in noi amanti di un calcio romantico. Grazie Gaetano e Giacinto.

Camillo Anzoini







Non ci saranno più le mezze stagioni neanche le intere sono un granché
ho un buco nelle tasche dei pantaloni forse avrò perso qualcosa di me
al bar tante chiacchiere e malinconie mentre qualcuno urla… “quattro caffè!”
ma guai a sgualcirmi bandiere e passioni meglio parlare di donne e tv
Gaetano e Giacinto sono due tipi che parlano piano
anche adesso, adesso che sono lontano
ma in questo frastuono è rimasta un’idea
un eco nel vento, Facchetti e Scirea
La palla accarezza i fili d’erba come un pianeta ben educato
buca la nebbia di un paese lombardo provincia di un mondo dimenticato
c’è chi attraversa la vita come una cometa e ci fa illudere che ci sia una meta
ma forse sono io che oggi sono strano avrei bisogno di qualcuno che mi prendesse per la mano
Gaetano e Giacinto sono due tipi che parlano piano
anche adesso, adesso che sono lontano
ma in questo frastuono è rimasta un’idea
un eco nel vento, Facchetti e Scirea
 Gaetano e Giacinto sono due tipi che parlano niente
con un solo passaggio uniscono milioni di…gente
ma in questo frastuono è rimasta un’idea
un eco nel vento, Facchetti e Scirea


sabato 21 febbraio 2015

L’ATLETICO CANCELLA L’IMBATTIBILITA’ DEGLI ALL GREENS

ATLETICO PKH                                         58
ALL GREENS PIEDIMONTE MATESE        50

ATLETICO PKH CASERTA: Pezzella, Russo 23, Chianese, Stellato, Iodice 7, Laudisio 11, Anzoini, Di Silvestro, Testa, Ranieri 5, Visone 6, Baccaro 6.
ALL GREENS PIEDIMONTE MATESE: Forray 2, Conte 16, Bucci 7, Bisceglia, Festa, Del Basso 14, Di Lello 5, Nardi 2, Mezzullo, Venditti, Cusano 4. All. Pacifico.
ARBITRI: De Lillo e Ausiello.
PARZIALI: 13-8, 23-16, 42-30.

Nella roccaforte del Pala Don Bosco cade l’imbattibilità degli All Greens Piedimonte Matese; in un colpo solo l’Atletico PKH (targato GoldwebTv, Caserta Drink Øl, GoldBetCafè, Centro Genesis, T&T Impianti e Copynet) cancella lo ‘0’ nella casella sconfitte dei matesini, conquista il primato del girone (insieme agli All Greens), fa rimanere inviolato il proprio campo e centra la quinta vittoria consecutiva. Tutto in una serata di pallacanestro meritevole, forse, anche di palcoscenici migliori visti i giocatori a battagliarsi sul parquet. Un gustoso anticipo di playoff vista l’intensità messa in campo dai due team che comandano il girone B. Nonostante le classiche assenze, il PKH vince con merito avendo condotto le danze dalla palla a due fino alla sirena. Piedimonte incassa il primo stop stagionale proprio nel giorno in cui schiera altri due assi: gente come l’argentino Forray e la guardia Di Lello sapranno fare la differenza appena entreranno in condizione, gente che ha giocato campionati di livello e prestigio ma che, inevitabilmente, ha pagato dazio nella prima ufficiale in maglia verde. Partita combattuta, accesa, spigolosa ma sempre nella massima correttezza e sportività come da tradizione quando si affrontano due team così amici come i casertani ed i matesini. Il duello per la vetta del girone è appena iniziato in attesa del return match nel fortino verde del Pala Matese.

LA CRONACA. Buona cornice di pubblico al Pala Don Bosco, tanti curiosi anche di altre formazioni per assistere al duello in vetta al girone B. E la partita non tradirà le attese. Coach Pacifico può contare anche su Forray e Di Lello, addizioni fantastiche nel proprio team, ma va col quintetto collaudato. L’Atletico PKH comincia, sin dalle prime battute, a far capire che fargli canestro sarà una vera impresa: in vernice Ranieri oscura il canestro anche a giocatori del calibro di Conte e Del Basso. L’attacco rossoblù non segna tanto anche se la manovra è piacevole: la prima mini fuga arriva dopo il missile di Visone (10-3) ma al 9’ arriva una brutta tegola per il PKH. Iodice prende tecnico per proteste ed ha già tre falli sul groppone. I locali non si demoralizzano, continuano a difendere alla morte non permettendo a Forray di scaldarsi ed agli altri di essere decisivi. Si accende Russo che imbuca due triple per il +8; Piedimonte resta aggrappata al match grazie a Cusano e Bucci. Alla pausa lunga è 23-16, 16 punti incassati dalla capolista imbattuta in 20’: un vero capolavoro difensivo. Iodice ritorna in campo nella ripresa e riesce a gestirsi alla grande anche se la situazione falli dell’Atletico è drammatica. Nel momento del bisogno, i casertani trovano linfa vitale da Laudisio e Baccaro. I due esterni firmano il vantaggio in doppia cifra, Iodice regala perle di basket, Russo è una furia, Ranieri stoppa qualsiasi cosa passi dalle sue parti: i matesini barcollano ma hanno un contributo da Di Lello e Del Basso per restare aggrappati al match. All’ultimo ‘stop and go’ è 42-30. I matesini partono sparati in avvio di quarto periodo: la difesa dei verdi è efficace e perfetta, in attacco l’eterno Conte si fa carico di tutta la squadra ed ecco confezionato il -4 con un break di 0-8. Gli ultimi 5’ sono di pura adrenalina: Visone esce per falli, Russo, Laudisio, Baccaro e Iodice chiudono ogni varco e se qualcuno trova spazio arriva Ranieri con la classica stoppata. L’argentino Forray è un pericolo costante ma sbaglia canestri, per lui, elementari. Si segna poco ed allora tocca a Russo caricarsi tutto il peso dell’attacco. Il folletto spara un missile dal parcheggio, ma è sempre la difesa a fare la differenza tanto che solo Conte segna… dalla lunetta. Arriva anche un tecnico a Bucci per proteste ma ormai è finita. Vince l’Atletico, cade l’imbattibilità del grande Piedimonte Matese.

giovedì 19 febbraio 2015

UN SALTO IN ALTO NELLA STORIA

La canadese Debbie Brill, la prima a sperimentare questo salto

Ad ogni gara di atletica mi chiedo come si possa aver pensato ad usare la schiena per il salto in alto.
Ora lo so. E ve lo racconto.
C’era una volta, e c'è ancora perché è vivo e vegeto, Richard Douglas ‘Dick’ Fosbury nato a Portland il 6 Marzo 1947.Dick Fosbury è ‘l'uomo dell’atletica’, oro nel salto in alto alle Olimpiadi di Città del Messico 1968, colui che ha portato il record a 2,24m di altezza.
Chi di voi ha letto qualche mio pezzo su questo spazio, sa che ho già parlato di quell’evento in Messico ma questo è un’altra cosa. Comunque a lui si deve la tecnica del ‘Fosbury Flop’, per intenderci è il tipo di salto che vediamo tutti, quello in cui l’atleta scavalca l’asticella rovesciando il corpo all’indietro e cadendo di schiena (salto dorsale) ormai usato da tutti in questo sport, quando fino a quel giorno si saltava in avanti (salto ventrale).
Quel giorno a Città del Messico lo ricordano per le scarpe diverse, secondo lui la scarpa destra di quel particolare colore gli dava una spinta maggiore, e per quella tecnica, che in realtà fu usata per la prima volta da Debbie Brill. Ecco. Anche se fino ad ora questo poteva essere un racconto di Dick, non è così.
Lo storico salto di Dick Fosbury a Città del Messico
E’ il racconto di Debbie. Debbie Brill è stata un’atleta canadese (Mission 10\03\1953) che per prima saltò di schiena. Anche se Fosbury la sdoganò, servendosi dei suoi fantastici risultati di cui sopra, lei dimostrava che con questo tipo di salto il centro di massa rimane sotto l’asticella per cui lo sforzo è minore e, trasformano l'energia della corsa in energia cinetica, centrifuga ed elevazione, i risultati sono migliori.
La Brill vinse 2 ori e 1 argento ai Giochi del Commonwealth, 1 oro e 1 bronzo ai Giochi Panamericani ma, anche se partecipò a due Olimpiadi, all’apice della sua carriera non poté partecipare a quelle di Mosca perché il comitato olimpico canadese aderì al boicottaggio dei Giochi.
Così Debbie Brill è stata la prima in assoluto ad usare la nuova tecnica di salto in alto, ben due anni prima di Dick Fosbury, nel 1966, ed è anche stata, per ben 11 volte, campionessa canadese e, per 2 volte, statunitense, oltre ad essere la prima donna nordamericana a sfondare il muro dei 6 piedi (1,83m) quando aveva solo 16 anni, ma tutto questo, e molti altri record, non hanno reso il ‘Salto di Fosbury’ il ‘Salto di Brill’.
La ricordiamo noi, nel nostro spazio sportivo, io nel mio sogno femminista e la ricorda pure il suo paese da quando l'ha resa ‘Ufficiale dell’Ordine’ nominandola ‘La donna più' importante del Canada nel salto in alto’.
Ciao Debbie. 


Tiziana Tavilla

martedì 17 febbraio 2015

GOODBYE ‘TARK THE SHARK’

Jerry Tarkanian nella classica posa con l'asciugamano tra i denti
Che avesse qualcosa di magico si era capito fin dalla nascita. Figlio di immigrati armeni fuggiti in America dopo il ‘Genocidio armeno’ avvenuto nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Una vita sempre borderline, dall’inizio alla fine avvenuta qualche giorno fa dopo una crisi respiratoria che l’ha stroncato. Stava male da tempo, però, quindi il finale è senza sorpresa ad 84 anni. Una partita l’ha persa, quella con la malattia. Jerry Tarkanian, per tutti Tark The Shark (lo squalo), è uno di quei personaggi che passano una volta ogni tanto nella storia del basket universitario. Forse non ne passeranno più. Un educatore, un uomo di cuore prima che un grande coach, Tarkanian aveva un feeling speciale coi giocatori, da tutti considerati, ‘difficili’. Due nomi su tutti: Lloyd ‘Sweet Pee’ Daniels e Chris Herren entrambi passati in Italia (Pesaro e Fortitudo Bologna). Non si sa per quale motivo, o forse si sa, lui riusciva ad avere un rapporto speciale proprio con questi ragazzi: solo lui, nessun’altro ci riusciva. Più l’impresa umana era difficile, più Tark riusciva a tirare fuori il meglio da questi ragazzi che potevano avere la salvezza solo tirando una palla a spicchi verso il canestro. E Tark era lì, al loro fianco, ad aiutarli.
Il giorno della consacrazione,
la vittoria del titolo Ncaa con UNLV
 Per molti Tarkanian è il coach ‘dall’asciugamano stretto tra i denti’, era molto altro. Tanto altro ancora. Inizia dalle high school: prima San Joaquin, poi Antelope Valley ed infine Redlands. Arriva, nel 1961, la chiamata del piccolo Riverside City College dove resta fino al 1968. Un passo alla volta, e dopo un record di 67-4 in quelle stagioni, sale di livello ed approda a Long Beach: cinque anni ed ecco la chiamata della vita. Nel 1973 fa bagagli e fagotto, arriva a Las Vegas per guidare i Rebels di UNLV. Ci resta fino al 1992, vince 509 partite, ne perde 105. L’anno d’oro è il 1990: vince il titolo con UNLV, una vera banda che distrugge, in finale, Duke. Gli antipodi del gioco, della filosofia di vita, di stile, semplicemente anche nel modo di porsi in campo: una finale che, di fatto, non c’è mai stata. Suona la sirena, gli sfacciati Rebels hanno asfaltato i Blu Devils di coach K per 103 a 73. In quella squadra dei sogni ha allenato gente come Larry Johnson (ex stella degli Charlotte Hornets in NBA), Stacey Augmon e Greg Anthony. Sempre in Nevada ha allenato Isaiah Rider, Reggie Theus (visto in Italia a Varese) e proprio Lloyd Daniels (Sweet Pee o Pisellino all’italiana). Daniels un ragazzo difficile, sempre nei guai ma dal talento sconfinato, aveva trovato in Tarkanian l’unico in grado di gestirlo, di guidarlo, di tenerlo lontano dai guai. Due anni dopo vive la pagina più nera a UNLV: sospeso per una serie di violazioni, le solite del college basket. Nel 1992 la chiamata dalla NBA, tanto attesa: vola in Texas e va ai San Antonio Spurs ma ci resta solo 20 partite (9-11 il record) e viene silurato. Resta tre anni fermo e poi via, ancora college, ancora una situazione ‘borderline’: torna in California, ma a Fresno State. Coi Bulldogs, dal 1995 al 2002, vince 104 partite e ne perde 79. Numeri. Nella mente c’è un solo nome: Chris Herren. Talento purissimo, giocatore immenso, cecchino frenetico, la sua vita è stata un film ed ESPN gli ha dedicato uno dei suoi più grandi documentari ‘Unguarded’ (a fine pezzo c’è link). Ci vorrebbe un articolo a parte per descrivere la storia del ragazzo di Fall River.
Tark e Chris Herren, una coppia speciale e sempre unita
La sua vita è fortemente segnata dalla presenza di Tarkanian, l’unico che l’ha aiutato prima durante e dopo la sua tossicodipendenza. Tark l’ha voluto a Fresno quando fu scaricato da Boston College, l’ha accudito ed accolto, ha gioito quando massacrò UMASS sotto una pioggia di insulti, ha sofferto con lui ed era al suo fianco quando, in diretta Tv nazionale, dichiarava la sua tossicodipendenza, l’ha aiuto nella riabilitazione, l’ha ripreso a Fresno, ha pianto quando fu selezionato dai Denver Nuggets in NBA, ha sofferto quando Chris è caduto ancora, ancora ed ancora un’altra volta (la prima dose di eroina l’ha comprata alla stazione di Bologna quando vestiva la canotta della Fortitudo), l’ha riabbracciato quando è risalito dall’inferno. Tark e Chris, per sempre insieme.
Nel 2013 è entrato nella Hall of Fame del basket, e ci mancherebbe. Ha chiuso la sua carriera con 939 partite ufficiali vinte e 227 perse. Solo numeri. ESPN, di lui, ha scritto: "Ha contribuito a rivoluzionare il modo in cui il gioco del college è stato giocato". Ma l’epitaffio migliore l’ha ‘scritto’ proprio Herren, uno di quei giocatori che Tarkanian amava e rendeva speciale: “E’ stato più di un allenatore per me, nei momenti del bisogno lui era sempre lì con me. Vorrei che venisse ricordato più per le cose fatte fuori dal campo. Ogni volta che mi vedeva, sorrideva ed illuminava la stanza. Quando a 21 anni annunciai a tutti i miei problemi con la droga in diretta tv nazionale, lui era al mio fianco. Una cosa che mi dicevo sempre era “voglio essere un uomo migliore, vorrei essere migliore per lui”. So di averlo deluso molte volte e di questo sono dispiaciuto”. Giù il sipario, goodbye Tark.

Camillo Anzoini


Unguarded, il documentario di ESPN dedicato alla storia di Chris Herren

domenica 15 febbraio 2015

STRANO BALLETTO DEI TIZI VESTITI DI NERO

Gli All Blacks mentre eseguono la Haka
In effetti è da ignoranti chiamare quei temibili atleti dal fisico possente 'tizi vestiti di nero' ma è anche vero che è po' questo il primo pensiero che suscitano negli spettatori, di questa parte del mondo, quando, prima di ogni partita iniziano la loro danza antichissima per intimorire gli avversari, anche se poi finiscono per intimorire tutti quelli che li stanno guardando e non solo i loro rivali.
Ballano la Haka. Adesso lo so.
E' una danza tipica dei Maori della Nuova Zelanda e gli All Blacks, con precisione, ballano la Ka Mate, composta intorno al 1820 per celebrare la forza della vita sulla morte. 
In pratica questi omoni entrano in campo prima di ogni partita e con mani, piedi, gambe, corpo, voce, lingua e occhi celebrano la sfida e la passione per lo sport, in modo molto disciplinato e coreografico. Non si tratta infatti solo di una danza di guerra o intimidatoria ma esprime il sentimento interiore di chi la esegue e può significare gioia, dolore o libertà. Certo è che stiamo parlando di un rituale volto ad impressionare gli avversari, e non solo.
La nazionale di rugby neozelandese è stata definita da Stuart Lancaster, allenatore d'Inghilterra, alla vigilia di una gara tra le due compagini, la 'squadra più forte del mondo' ma non la squadra di rugby più forte del mondo, ma proprio la migliore di tutte a confronto con qualsiasi sport e sicuramente questa liturgia li aiuta.
La Haka la usarono per la prima volta in occasione del primo tour fuori dalla loro patria, era in Gran Bretagna nel 1888 ma non si può affermare con certezza che la variante che usarono fu già la Ka Mate, è certo però che veniva eseguita con giocatori avvolti in mantelli bianchi e con un berretto nero che veniva lanciato in aria alla fine, per rendere il tutto ancora più spaventoso, direi io. 
Questo 'balletto' e la forza dei singoli hanno fatto vincere a questa Nazione 2 Coppe del Mondo, 10 volte il Tre Nazioni, 3 volte il The Rugby Championship e 42 volte la Bledisloe Cup.
Ma, se parliamo di questa squadra dobbiamo per forza menzionare almeno un giocatore. 
Nei giorni nostri non si può non nominare Ma'a Nonu, che letto così sicuro non vi dice niente ma vi assicuro che la faccia la ricorderete se avete visto almeno una volta una partita degli All Blacks. Ma'a Nonu è un centro e qualcuno di lui ha detto: 'vedere Nonu giocare è come osservare un rinoceronte che si fa largo tra un branco di gazzelle spaesate, come guardare una spazzaneve pulire le strade.' A parte la danza, i dread e l' eye-liner da perfetto Maori, la sua presenza nella squadra, con la maglia 87, ha una valenza quasi primitiva, originaria, e tutto quello che si portano dietro queste danze e il rituale annesso è proprio un attaccamento alle origini e alla propria cultura. 

LEADER: Ringa pakia!                            Batti le mani contro le cosce!
                Uma tiraha!                              Sbuffa col petto!
                Turi whatia!                              Piega le ginocchia!      
                Hope whai ake!                        Lascia che i fianchi li seguano
                Weawea takahia kia kino         Pesta i piedi più forte che puoi
                nei hoki!    

SQUADRA: A kia kino nei hoki!                            Più forte che puoi!
LEADER:   Ka mate, ka mate                                E' la morte, è la morte
SQUADRA:  Ka ora' ka ora'                                    E' la vita, è la vita
LEADER:       Ka mate, Ka mate                            E' la vita, è la vita
SQUADRA:  Ka ora', ka ora'                                   E' la vita, è la vita
TUTTI:          Tènei te tangata                                 Questo è l'uomo dai capelli
                      pùhuruhuru                                          lunghi
                      Nàni i tiki mai                                      ... è colui che ha fatto 
                      whakawhiti te rà                                 splendere il sole su di me!
                 
                      A Upane!                                              Ancora uno scalino.
                      Ka Upane!                                           Ancora uno scalino
                      Upane Kaupane                                un altro fino in alto
                      Whiti te ra',!                                        il sole splende!
                       Hi!                                                        (risata)


Bene. Adesso che ne sappiamo la storia e il testo, vi dò il permesso di usare questo canto di forza alla vigilia della prossima partita di calcetto che farete ragazzi. E poi, fatemi sapere com'è andata. 


Tiziana Tavilla







sabato 14 febbraio 2015

NBA FRIDAY, IM IN LOVE

Spike Lee ed il suo 'sobrio' copricapo
Notte da sogno, il palcoscenico è quello giusto, il nuovo Barclays Center di Brooklyn, le star ci sono, le nuove divise fatte apposta col nome sulla schiena e il pallone è quello giusto, quello antico Aba, blu bianco e rosso, tanto caro agli Harlem Globetrotters. Si può iniziare quello che forse è il meno cestistico degli eventi dell'All Star Weekend, ma di sicuro quello più caro agli appassionati. Chiunque ami questo sport non può che desiderare un evento del genere, e già il prewiew non è stato basso rispetto alle aspettative. Kevin Hart, lo storico attore che ci ha fatto esaltare in Scary Movie, attacca dalle trasmissioni talk più celebri: "Voglio il 4^ Mvp consecutivo, come Kobe e MJ!". Lo otterrà al termine di una serata in cui si è visto di tutto, anche se lui è nella squadra perdente, nonostante una partita da 7 punti e 4 assist, ma la sua simpatia vince e le sue lacrime di commozione sono tutto un programma. Ma andiamo a mettere un po' di mostarda al nostro racconto.
Rispetto al passato le prime novità: abbiamo escluso il segretario del Ministero dell'Educazione Arne Duncan, che l'anno passato aveva insegnato basket a tutti pur senza vincere l'award, forse quel cognome "means basketball" e quindi lo possiamo tener buono per qualche altra occasione. Non c'è nemmeno Snoop Dogg, peccato le sue treccine e i suoi movimenti spalle a canestro sarebbero stati molto di matrice Sheed. C'è 50Cent a bordo campo, almeno così dice la regia, con John Barry della Espn che sembra aver regalato al suo pubblico più di qualche sorriso, ma per commentare questa partita mi sa che il Gatorade o l'acqua non basteranno. Vediamo chi c'è. Kevin Hart ha il numero 1, saltella come un grillo nel riscaldamento, è carico a pallettoni. C'è un Chris Mullin che ha messo su qualche kilo e sarà il classico go to guy quando serve. Allan Houston più nascosto, anche lui come il predetto ex Golden State. Se fosse stato il MSG e se fossimo a qualche miglio di distanza, di certo ci sarebbe una parte del palazzetto solo per lui. Poi c'è un cantante, non l'ho mai sentito, degli Arcade Fire... Cerco su Youtube nel commercial break qualche canzone, non me ne piace nessuna, si chiama Butler ma è uno spettacolo da vedere. Capelli lisci, stirati, fascia colorata e look degna del buon film "Semi Pro" di Will Ferrell (e mi chiedo perchè Andre 3000 sia assente). 
Non da meno quello di Melo
E poi? Oddio ma ci sono le giocatrici della Wnba (il che mi fa chiedere se i campionati russi ed europei siano fermi, e almeno in Italia so che non è così). C'è una Skylar Diggins che è carica, Shoni Shimmel combattiva e poi una ragazzina che non ha il fisico da cestista, e infatti non lo è, ma che ho già visto da qualche parte, anche se non ricordo dove. Mo'ne Davis. Forse non la si conosce, ma è una ragazzina sui 13-14 anni che ha fatto il giro del mondo per i suoi lanci di baseball (e si badi non softball) e che è un autentico idolo e ha già ricevuto proposte di sponsorizzazione e di interviste dai network più ambiti. Sono certo che ci sia KD in tribuna a fare il tifo per lei.  E poi Robert Pera, che è il proprietario dei Grizzlies. (Secondo me, e questo giudizio è l'unico che aggiungo dopo aver visto la partita, questo si allena con Marc e Zibo). Si fa il giro sugli spalti, bella gente, belle giacche. Anthony Davis si diverte con selfie e tweet vari. Carmelo è in panchina vicino a Spike Lee, più elegante del solito, anche se tende sempre a sottolineare il suo credo cestistico con l'occhialino arancione. Dall'altra parte la Mike & Mike coppia, coppia della radio americana. Si gioca e si vede un po' di tutto. Kevin Hart è un trottolino. Rubo il commento del telecronista a stelle e strisce e vi dico che ci rivedo il giudizio. Ve lo ricordate Ricky Davis, passato ai Clippers o ai Celtics, autentico cavallo pazzo? Eccolo, il buon Kevin è un po' lui nelle serate peggiori. Alterna magate pazzesche a tiri imbarazzanti, ma sempre col sorriso e la sua maglia bianca che è ovunque. Chi risponde contro di lui? La più piccola in campo. Mo'ne Davis assurda anche con una palla più grande di quella con le 52 cuciture. Spin move, virata, Kevin resta piantato come con la colla sul parquet e appoggio al vetro. I due si sfidano, spalle a canestro, lui va di forza, lei regge l'urto, we have a fight. Nel mentre Robert Pera spiega a tutti come si gioca in vernice. Il rockettaro sconosciuto per me si fa vedere, con dei bei tagli backdoor che appoggia al ferro, anche se gli assist di Diggins sono autentici cioccolatini degni dei migliori Baci di San Valentino. La partita è in equilibrio, la squadra Western si tiene in vantaggio, anche perchè Mullin si diverte e visto che quando non tira non prende più il ferro allora scopre la dimensione del passaggio. 
Una fase dell'ASG Friday Night
Quando poi gli cade un rimbalzo nelle mani e vede il solito trottolino Hart arrivare con tutta furia a contenderglielo, da buon vecchio gli tiene la palla in alto come a dire "Try to pick me!!!" e lì flashback con tutte le stoppate della carriera di un qualsiasi play undersized. Ma Kevin cova scintille sotto la brace e si prende un piccola rivincita. Il buon Butler, anch'egli uno snello e alto cipresso, prende un rimbalzo e lui con un salto pazzesco gli sradica la palla dalle mani. Se i fans ti votano Mvp c'è un motivo. Comunque la gara continua. Gli amici del buon Hart recuperano fino al -2 dopo una gara sotto, poi i West si annoiano e la chiudono così. Diggins fa vedere qualche bella giocata, sempre al contrario. Mi fa più rabbia vedere Shoni Shimmel che tira e mette qualsiasi cosa gli passi tra le mani; sei la mvp del tuo all star game, facci divertire con le tue mani fatate. Anche JR Smith, sobrio ed elegante come al solito, appare alquanto disgustato. Iniziano a vedersi le facce di quelli del Rookie challenge, divertite tanto quanto me. Comunque dicevamo del match. Si poi arriva questo Mullin, che non aveva segnato alquanto e piazza la bomba decisiva. Film già visto, mi sa che gli splash brothers devono prendere appunti. Finisce 59-51. Ci siamo divertiti tutti, arriva il momento dell'MVP e chi lo vince? Mani basse Kevin Hart, che fa qurto MVP di fila, come Kobe e MJ e poi dice, ragazzi mi ritiro. 
Il rookie challenge può aspettare la replica di domani, ci siamo divertiti parecchio con lo sport che amiamo, e magari chissà che qualcosa del genere non possa capitare anche a noi molto presto. Altro che "Ballando con le stelle" o "Sanremo". Note a margine. Pera mio personale mvp per quello che fa dal campo, mentre Mo'ne Davis da eleggere ad honorem rookie of the year, perchè avrebbe molto da spiegare e a molti. Il rockettaro Butler degli Arcade Fire forse è conosciuto in Canada e negli Usa, magari sto pezzo lo lancia in Europa, vince il premio simpatia, mentre un personale in bocca al lupo va a Jesse Williams che ha subito un brutto infortunio in questa gara al ginocchio: doloroso. 
Un plauso anche all'atleta paralimpico Blake Leeper, che difende come un ossesso e manda in visibilio l'intero palazzo dopo una bomba che meritava l'interruzione della gara per la standing ovation, perchè non esistono barriere.


Domenico Landolfo

venerdì 13 febbraio 2015

ALL STAR WEEKEND HISTORY

A febbraio e prima ancora della March Madness del College Basketball, è l’evento più seguito del basket Americano: l’All Star Game, la partita delle stelle, il momento in cui tutti i migliori giocatore della Nba scendo in campo nello stesso momento l’uno contro l’altro. Ed allora ecco alcuni cenni di accadimenti nei decenni della storia Nba a partire – ovviamente – dall’evento numero uno in assoluto.

A sinistra Ed Macauley. Primo Mvp
nella storia dell'All Star Game
1950s –  Correva l’anno 1951. Il basket a stelle e strisce era ai minimi storici della popolarità dopo i fatti divenuti di dominio pubblico e legati al mondo del College. Serviva una spinta, serviva un collante, serviva un’esplosione di entusiasmo ed ecco arrivare l’invenzione della Nba: l’All Star Game; la partita delle stelle. A dire il vero l’unico a credere che mettere l’Est e l’Ovest l’uno contro l’altro per stabile quale Conference era la migliore, fu solo il proprietario dei Celtics Walter Brown. Per convincere l’intera Lega si assunse tutti i rischi della riuscita dell’evento per il quale tutti si attendevano un fiasco e una umiliazione pubblica. Risultato: 3500 spettatoti – non il tutto esaurito – ed Est è che mise ko l’Ovest con il punteggio di 111-94 sotto la guida del Celtic Ed ‘Easy’ Macauley che domò il dirimpettaio gigante Mikan. Un raggio di sole sul basket e sulla Nba, ma soprattutto la prima partita ‘stellata’ di una ‘costellazione’ che ormai tutti attendono nel mese di febbraio.  Anno 1958 dopo quasi otto anni di All Star Game e di un Mvp individuato come colui che guida la squadra alla vittoria, accade anche questo: Bob Pettit diviene il primo giocatore a vincere un titolo di Mvp da ‘perdente’ (l’Est vince ancora con il punteggio di 130-118). Il motivo? I 28 punti ed i 26 rimbalzi contro una squadra che Aveva Cousy (colui che portò l’est alla vittoria nel secondo tempo) ed il miglior centro dominante dell’epoca Bill Russell, non potevano passare inosservati. Restando in tema di Mvp l’anno successivo nel 1959 arrivò anche il primo co-Mvp assegnato di diritto al rookie Elgin Baylor e al veterano di cui sopra Bob Pettit che quindi scrive doppietta.

Wilt Chamberlain
1960s – Gli anni sessanta purtroppo per gli avversari, per fortuna di chi si gustava il tutto dagli spalti, sono stati caratterizzati da tre nomi: Oscar Robertson e la rivalità tra Bill Russell e Wilt Chamberlain. Partendo da questi ultimi due ad onor del vero le scintille nel caso specifico della gara delle ‘stelle’ è iniziata da quando nel febbraio del 1963 i due lunghi più dominanti della Lega non dovettero più firmare tregue dalla regular season, ma continuarono a lottare uno contro l’altro anche nel giorno dello show: i Warriors passarono da Philadelphia a San Francisco di conseguenza Wilt da Est passa all’Ovest, ma in campo a vincere la sfida e titolo di Mvp fu ancora il totem dei Celtics (l’anno prima nel 1962 Chamberlain ancora a secco nonostante la prestazione mostruosa). Bypassando il 1964 e l’affermazione di un Oscar Robertson da 26 punti ponendo le basi per la sua storia personale (l’unico insieme a Pettit e Jordan a vincere almeno tre o più titoli di Mvp), l’evento nell’evento arriva nel 1965: uno dei più incandescenti della storia. L’Est sciupa un vantaggio di 16 punti, Jerry Lucas sgomita a suon di canestri tra giganti come Chamberlain, Jerry West, Russell e chi più ne ha più ne metta e due giorni dopo questo show, il lungo che scriverà la storia Nba con 100 punti segnati in una singola partita viene spedito da San Francisco a Philadelphia nella trade che devastò gli allori equilibri della Lega regalando a Philadelphia il titolo nel 1967. Intanto accadeva anche che Rick Barry segnava 32 punti in 38 minuti, mentre nel 1968 Hal Greer – compagno di squadra di Wilt Chamberlain ai Sixers vince il titolo di Mvp con soli 17 minuti giocati.

Randy Smith dei Buffalo Braves
1970s – Nel 1971 arriva il primo ‘Silver Anniversary’ della partita delle stelle letteralmente inventata dal proprietario dei Celtics Walter Brown. Edizione che vide un Jabbar di primo pelo assaporare il gusto amaro della sconfitta in termini personali di Mvp, ma poi la storia dice che ebbe modo di rifarsi nelle successive 17 edizioni dell’All Star Game. Nel 1972 è ‘Mister Logo’ Jerry West a portarsi a casa il titolo di Mvp con il tiro della vittoria per l’Ovest allo scadere. Il 1977 fu l’anno di colui che nella ABA aveva scioccato tutti con schiacciate o layup rovesciati galleggiando sopra o sotto il ferro: Julius ‘Doctor J’ Erving. Erving arriva nella Nba quando quest’ultima ingloba la ABA nel 1977 e la città di Milwaukee assiste al primo vero show del ‘Doctor’ in versione stellare anche se l’Est perde il confronto. Ma i duelli, le carriere e i risultati di Kareem Abdul-Jabbar o di Julius Erving sono sotto gli occhi di tutti, ma quello che negli anni settanta sicuramente scioccò per un attimo il mondo Nba fu l’unico momento di gloria per la città di Buffalo nella Nba. Anno 1978 Atlanta, dai Buffalo Braves viene selezionato Randy Smith. Capigliatura afro, componente della panchina e fino a quel momento solo star locale alla Buffalo State University e successivamente dei Braves. Cinque falli in tempo e titolo di Mvp finale con 27 punti (11/14), sette rimbalzi e sei assist. Una performance che venne rinominata ‘out of nowhere Mvp’.

Magic vs Bird. Celtics vs Lakers
1980s – E qui arriviamo al momento cruciale. Arriviamo al momento in cui il basket a stelle e strisce e la Lega Nba compie la prima vera mutazione della sua storia, il primo vero passo verso quella consacrazione globale che oggi ne fa una delle Leghe sportive più seguite e conosciute al mondo. Il tutto grazie agli anni ottanta (qualche nostro amico che cito con nome d’arte 'Guido Back to the Eighties' direbbe gli anni migliori sotto parecchi punti di vista se non tutti) e la dimostrazione sono la miriadi di eventi e di elementi da sottolineare solo per quanto riguarda l’All Star Game, figurarsi per l’intera regular season. Ecco perché nello stuzzicare la vostra conoscenza dell’vento andremo avanti con cenni veloci ma significativi. Anno 1980 basta una sola indicazione: quello del debutto nella Nba di Larry Bird e Magic Johnson, due che da qualche altra parte all’Università si erano già incontrati e quindi era solo questione di cambio di palcoscenico. Anno 1982 quello della famosissima striscia di 12 punti nei sei minuti finali di Bird che divenne poi Mvp della serata. Anno 1983 troppo scontato parlare del campo ed allora il tutto si focalizzò sulla presenza e sulla rivoluzionaria interpretazionedi Marvin Gaye al Forum di Los Angeles per l’inno nazionale che precedette la partita (Doctor J fu l’Mvp, mentre Magic scrisse la storia con 16 assist). Quello che oggi definiamo All Star Weekend nasce nel 1984 con l’introduzione per la prima volta anche dell’All Star Saturday. Con cosa? La gara delle schiacciate. Il primo a portarsi a casa il trofeo fu Larry Nance che in finale oscurò un re della schiacciata come Julius Erving (nella gara della domenica l’Mvp andò ad Isiah Thomas con 21 punti nel secondo tempo). Ufficialmente dal 1985 in poi la domenica non era il solo giorno più atteso dell’All Star Weekend. 
Marvin Gaye cantò l'inno
nazionale nel 1983
Lo Slam Dunk Contest acquisiva consensi senza fine grazie anche alla spinta che arrivò da Terence Stansbury e la schiacciata in onore della Statua della Libertà. Stesso discorso nel 1986 quando a finire sotto le luci della ribalta fu il piccolissimo Spud Webb si portò a casa il titolo di miglior schiacciatore della kermesse dall’alto dei suoi 170 cm. Per info chiedere a Dominique Wilkins che di schiacciate qualcosa ne capisce. Sempre nel 1986 arriva la gara del tiro da tre punti, mentre nel 1988 arrivarono i primi momenti di storia: Bird ancora cecchino infallibile, mentre Dominique Wilkins e Michael Jordan danno vita allo show nello show più indimenticato della storia dell’All Star Game: la gara delle schiacciate. Ebbene si quella in cui Jordan stacca dalla lunetta e crea letteralmente il logo che attualmente contraddistingue il suo marchio. 

Magic Johnson e il titolo di Mvp nel 1992
dopo la sua dichiarazione di aver contratto l'HIV
1990s – L’impronta arrivata dagli anni ottanta esplode letteralmente nella decade successiva. La Nba è un culto ovunque, gli atleti e le superstar aumentano a dismisura cosi come la popolarità e la curiosità di vederle tutte assieme una contro l’altra. Si parte con il 1990 e la performance da 17 punti e 22 rimbalzi di Sir Charles Barkley nel giorno del ritorno di Jordan nel North Carolina con la partita delle stelle di scena a Charlotte. Il 1991 porta il nome di Dee Brown che vinse il titolo di miglior schiacciatore con quella che poi divenne un ‘Cult’ della categoria: la schiacciata con braccio che copre gli occhi anche se poi la particolarità fu che prima della schiacciata lo stesso Brown si gonfiò le sue Reebok Pump, altro ‘Cult’ dell’epoca. Il clou degli anni novanta in termini di emozioni, però, arrivò nel 1992  ovvero quando Magic Johnson aveva da poco scioccato il mondo dichiarando di aver contratto il virus dell’HIV. Di li a poco il ritiro, ma prima una delle migliori prestazioni della storia dell’All Star Game. Quel che successe in campo e alla fine della partita in termini di abbracci fa parte del patrimonio storico di questa Lega. 
Nel 1994 viene introdotto il Rookie Game che Iverson vinse nel 1997, quando fu introdotto per la prima volta il club dei migliori 50 giocatori di sempre della storia Nba. Nello stesso weekend Kobe Bryant vince la sua prima ed unica gara delle schiacciate, mentre alla domenica Glen Rice fa suo il titolo di Mvp con Michael Jordan che chiuse in tripla doppia con 14 punti, 11 assist e 11 rimbalzi. Per onor di cronaca Jordan vinse il titolo di Mvp nel 1998.

Jordan e Bryant durante l'ASG del 2003
2000s – Quelli del nuovo millennio sono stati e continuano ad essere gli anni del definitivo passaggio di consegna tra la vecchia e la nuova Nba. Una Nba ormai molto ma molto di più di un evento globale e facilmente raggiungibile e godibile rispetto a chi aveva pochi mezzi a disposizione, tramite il satellite ed internet. Ed è per questo che è quella Nba di cui narreremo poco se non indicando alcuni momenti speciali. Ma anche in questi ci limiteremo a semplici indicazioni, non abbiamo certo la presunzione di rimembrare fatti ed accadimenti che per gli amanti della palla a spicchi sono scontati. Ed allora il rush finale parte dal 2000 e lo show di ‘Vincredible’ aka Vince Carter nello Slam Dunk Contest. Nel 2001 vengono notificati e resi noti i migliori 50 giocatori di ogni epoca. Non si poteva scegliere anno migliore, visto quello che si vide in campo con l’Est guidata da Iverson in versione Mvp (si l’anno del Where is my coach?) che in rimonta riuscì a mettere ko l’Ovest della coppia Bryant-O’Neal. Nel 2002 lo stesso Bryant si prese la sua personale rivincita vincendo e volendo a tutti i costi il titolo di Mvp nella sua natia Philadelphia, anche se quella edizione di All Star Game viene e verrà sempre ricordata per quello che Tracy McGrady fece sulla testa di Dirk Nowitzki. Alley oop personale con palla al tabellone in transizione e con il tedesco davanti.
Il volo di Robinson sulla testa di Howard
Il resto anche qui è storia. Nel 2003 il definitivo passaggio di consegne. Jordan, tornato in campo, si ritira ancora una volta. Gioca il suo ultimo All Star Game in quello che qualcuno – me compreso – ha definito come la festa rovinata da Kobe Bryant nel giorno di ‘Sua Maestà’ con Carter super votato dai tifosi che cedette il proprio posto in quintetto proprio a Jordan. Doppio Overtime con Bryant che per n paio di volte rovinò la festa, Ovest porta a casa il match e di conseguenza Garnett il titolo di Mvp che in tanti avrebbero voluto vedere ancora una volta nelle mani del più grande di sempre. Il 2004 segna la definitiva nascita della nuova era: arrivano LeBron James, Wade, Anthony ed il Rookie Challenge, ma a dominare al momento sono ancora i veterani e nello specifico Shaq. Nel 2006 Iguodala schiaccia partendo dal retro del canestro, Nate Robinson sulla testa di Spud Webb. Nel 2008 arriva Dwight Superman Howard, nel 2009 la ‘KriptoNate’ con Robinson che schiaccia letteralmente saltando Dwight Howard e trionfando ancora nel 2010 nell’All Star Game dei record nello stadio dei Cowboys saltando tutta la linea delle Cheerleader. Dal 2011 è ormai storia moderna, storia contemporanea dove vogliamo solo citare un evento recente: il primo italiano a trionfare in un evento dell’All Star weekend, Marco Belinelli che quest’anno nella Grande Mela partirà da detentore del titolo della gara del tiro da tre punti.


Marco Belinelli, vincitore dello scorso Three point Contest
GLI EVENTI DI QUESTO WEEKEND – Si parte questa notte con il clou rappresentato dal classico match del Rising Stars Challenge che questa volta verrà contrapposta la squadra ‘WORLD’ contro quella USA (diretta Sky a partire dalle 3.00 italiane). Gli appassionati, però, non attendono altro che il sabto prima ancora della domenica. Tolte le prime incombenze della notte attraverso i vari Skills Challenge ed altri eventi, anche qui il clou è tutto nel finale. Gara del tiro da tre punti dove scenderà in campo Marco Belinelli da detentore del titolo. Contro di lui Steph Curry, Klay Thompson, Kyle Korver, JJ Redick, Kyrie Irving, James Harden e Wesley Matthews. A chiusura del sabato stellato lo Slam Dunk Contest. A contendersi il titolo Gianni Antetokounmpo, Zach LaVine, Victor Oladipo e Mason Plumlee (in diretta sempre su SkySport2 dalle 2.30). Ventiquattro ore più tardi lo show degli show: il 64esimo All Star Game. 

IL DERBY E’ DELL’ATLETICO, REWINPS KO

Una fase della sfida al Pala Don Bosco (Foto Tanaka)
ATLETICO PKH                49
REWINPS                         39

ATLETICO PKH: Russo 26, Chianese, Stellato 2, Iodice 12, Laudisio 6, Anzoini, Di Silvestro, Testa, Romitelli, Visone 3, Baccaro, Dell’Imperio.
REWINPS: Veccia, Chianese, De Masi 6, Astarita 13, Barca 4, Fiore 8, Miggiano, Visca 2, De Angelis 6.
ARBITRI: Iavarone e De Lillo.
PARZIALI: 11-6, 24-17, 38-29.

Il derby del Pala Don Bosco è dell’Atletico PKH (targato GoldwebTv, Caserta Drink Øl, GoldBetCafè, Centro Genesis, T&T Impianti e Copynet) che, al termine di una lunga ed accesa battaglia, conquista lo scalpo dei Rewinps (griffati Pane&Salame, Thaddeus Pub, Farmacia Barca, Mosca Parrucchieri, Dell’Aquila Pneumatici e Pizzeria da Ciro). La vendetta sportiva è servita; all’andata vinse la matricola di 2 e, con questo successo, i rossoblù di casa girano il doppio confronto e mettono una seria ipoteca sulla seconda piazza del girone B prima del doppio duello con la capolista Piedimonte Matese. Partita non per palati fini nonostante l’incredibile serie di giocatori di qualità in campo; diverse le assenze su entrambi i fronti, ma match di grandissimo tenore agonistico. Difese particolarmente sugli scudi, soprattutto quella del PKH che ha concesso la miseria di 39 punti ad un simile avversario. I Rewinps continuano a denotare scarsa condizione fisica ed, infatti, è stata questa una delle chiavi della loro sconfitta: l’Atletico ha tenuto sempre alta l’intensità ed ha conquistato una vittoria meritata e di ottima fattura. Prova solida di tutto il collettivo, impreziosita da Russo recuperato in pieno e ritornato su livelli degni di altri palcoscenici. Ma questa è la vittoria del gruppo che ha dedicato il successo ad un compagno di squadra non presente al match perché colpito da un grave lutto familiare.

LA CRONACA. Partenza tremenda per i Rewinps che faticano addirittura a tirare e perdono palloni a profusione contro l’agguerrita difesa dei rossoblù. Nonostante il gap di altezza e le assenze, il PKH è super concentrato e motivato e vola sul +7 dopo la tripla di Russo; a tenere in vita gli ospiti sono Barca, De Angelis ed Astarita. L’ennesima bomba dal parcheggio di Russo riallarga la forbice (18-9) ma sempre i lunghi in blù permettono ai Rewinps di credere ancora nel successo nonostante le pessime percentuali nel tiro pesante. Iodice e Laudisio si scaldano e, sul finire di primo tempo, l’esterno s’inventa un canestro in penetrazione da cineteca. Il +7 alla pausa lunga va anche stretto ai locali. Romitelli, Di Silvestro, Baccaro e Testa, a turno, riescono a non far accendere mai il talento di De Masi mentre in attacco Russo diventa semplicemente immarcabile. Astarita suona la carica dei Rewinps che rientrano fino al -4 prima della seconda bomba di Russo direttamente dal parcheggio. Il PKH passa a zona 2-3 per la prima volta in stagione ed erige un muro a difesa del proprio canestro: Iodice, Stellato e Dell’Imperio lottano ferocemente in vernice, Visone recupera tre palloni fondamentali, la difesa di Laudisio su Astarita è commovente. Pur senza segnare, l’Atletico ha sempre il comando anche se De Masi riesce a sganciare uno dei suoi missili ed il totem Fiore, con sei punti nell’ultimo periodo, firmano il nuovo -5. Qui, però, ancora Russo da distanza siderale ed i liberi di Visone e Iodice fanno scorrere i titoli di coda. Fantastica impresa per l’Atletico PKH.