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La foto del passaggio al tavolo dei commentatori di Henry |
«Dopo venti anni tra i campi di calcio, ho deciso che è
arrivato il momento di mettere la parola fine alla mia carriera
professionistica. Un viaggio fantastico nel quale ho vissuto tante emozioni e
per il quale vorrei ringraziare tutti i fans del Monaco, della Juventus, dell’Arsenal,
del Barcellona, della nazionale francese ed ultimi e non per importanza, quelli
dei New York Red Bulls. E’ giunto il momento che la mia carriera prenda un
corso diverso e quindi sono contento di annunciare che il prossimo anno
tornerò a Londra per essere parte dello team televisivo di Sky Sport». Sedici
dicembre scorso. Quest l'addio di Thierry Henry a New York, ai Red Bulls ed al calcio giocato in generale. Niente
più maglietta, calzoncini e parastinchi, ma giacca, cravatta e microfono per
commentare le partite della Premier. Si chiude, insomma, il cerchio di uno dei
giocatori più talentuosi ed a volte controversi degli ultimi venti anni (vedi
le stagioni della Juve e quella con il Barcellona). Uno che negli
ultimi quattro ha fatto breccia nel cuore dei newyorkesi riuscendo ad entrare
nella storia del club con 122 presenze (nono ogni epoca, settimo per partite da
titolare e minuti giocati), il titolo di Mvp della squadra, leader in gol
vincenti (14) ed assist vincenti (11) nel 2012 (perdendo nel rush finale quello
della Lega) e quattro volte All-Star della Major League Soccer. Capitano dei
Red Bulls dal 2013 dopo aver condotto la franchigia newyorkese alla post season
per la prima volta dopo il 2008. Cinquantuno goals totali e per
i più appassionati meglio
conosciuto con il nome di ‘Henrywood’ per quello che il francese riuscì a fare
nel maggio del 2011 in
un match contro i Los Angeles Galaxy di David Beckham (per dare un’occhiata cliccate
qui per il gol http://gfycat.com/RevolvingCommonAyeaye#).
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Il fotomontaggio con dedica da parte dei NY Red Bulls |
Insomma senza giri di parole ormai un’icona del calcio statunitense. Eppure non
è sempre stato cosi. Già perché prima di mettere piede sul suolo americano, puoi
essere stata un’icona del calcio inglese con la maglia dell’Arsenal, puoi aver
vinto un europeo (2000), un mondiale (1998), una Confederations Cup (2003) ed
essere stato uno dei migliori giocatori transalpini degli ultimi quindici anni,
tutto si azzera, tutto diventa relativo ed in funzione di una sola cosa: rifare
quello che hai fatto sotto gli occhi a stelle e strisce dei tifosi. Il tutto
poi si ‘relativizza’ se la città in questione è quella della Grande Mela. A New
York lo sport non è una passione più o meno sviluppata come di solito si può
avvertire in qualsiasi parte del globo terrestre: è una vera e propria
religione e il sottoscritto ha respirato questa fede in prima persona. Che si parli di un pallone da prendere a calci, di una pallina da
colpire con una mazza di legno, un dischetto nero che vaga veloce su del ghiaccio
con uomini pronti anche a scazzottarsi dopo spintoni come ragazzi su di giri in
un normale Bowling di periferia, o ancora quella ovale per la quale in Texas –
tanto per fare un esempio – c’è anche chi sarebbe disposto a donare parte di se
per vincere il classico derby di Football collegiale, il sentimento viscerale
con il quale è seguito il tutto è di altissimo livello. Un sentimento viscerale che mette tutti sulla graticola sin dal primo
giorno ed anche senza aver mosso un solo dito ed io ne fui testimone proprio in
una sera al Madison Square Garden. L’essere all'altezza di portare in dosso una
divisa con su impresse le tre le lettere più famose al mondo, è il solo credo
da rispettare quando si è nuovi a questo mondo, specie se la
provenienza è quella Europea. Eppure per ‘Titì’ sarebbe stato facile chiedere ad
un altro Europeo che è stato visto con sospetto e che addirittura si è preso
dei fischi nel suo giorno più importante da Pro. Era il 2008, il contorno sempre
quello del Madison e alla numero 6 i Knicks scelgono Danilo Gallinari dall’Olimpia
Milano. Dopo l’annuncio di Stern nel suo cammino verso il palco per la classica
cerimonia della stretta di mano con il Commissioner in persona e che spetta di
diritto ad ogni giocatore chiamato al primo giro prima di abbandonare al vice l’arduo
compite per tutta la restante parte della serata, dagli spalti arrivarono segnali
di non approvazione sotto forma di fischi e di ‘buh’, che con ogni probabilità non
avevano come destinatario diretto lo stesso Gallinari, ma il front office dei Knicks che a
detta dell’opinione pubblica poteva fare meglio (o anche a Gallinari, ma questo
non lo sapremo mai). Eppure è bastato che il Gallo fosse al top fisicamente, è bastato che
l’ex Olimpia infuocasse il tutto con qualche tripla, difesa o schiacciata in
più per far si che il suo nome, volto e numero di maglia divenissero una sorta
di ‘dio’ da idolatrare sulla’altare del Madison. Già il Madison. La stessa
arena che nel suo primo arrivo negli States da giocatore dei New York Red
Bulls, fu scuola per Henry per capire che in fondo solo perché sei Thierry
Henry, non vuol dire che automaticamente sei un idolo della folla. Eppure il
francese lo doveva capire dalle prime schermaglie di quel 17 di Gennaio del 2011
che non era il momento giusto per ostentare la sua 'notorietà oggettiva' di calciatore di fama mondiale. Al Madison c’erano gli Heat, la folla era
inferocita e calda come non mai dopo la decisione di LeBron James di preferire
South Beach alla Fifth Avenue (ma di questo ne parleremo in un altro racconto)
e sullo schermo gigante durante l’intervallo le solite inquadrature a
personaggi famosi e ‘players’ della Grande Mela. Consueto il tributo a Spike Lee, senza fine l'ovazione per Derek Jeter capitano degli Yankees, timidi gli applausi per
un volto che era stato sulle prime pagine sportive dei giornali locali negli
ultimi tempi per il suo approdo ai Red Bulls: quello di Thierry Henry. Tutto normale si
poteva pensare, ma non per tutti.
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L'esultanza del francese in uno dei suoi 51 goals in maglia Red Bulls |
Non per tutti perché aprendo una piccola parentesi
legata a quanto detto sull'essere viscerale della passione degli americani e
dei newyorkesi in particolare, non tutti possono sapere cosi di primo acchito e
alla semplice vista che tu sei quel ‘Titì’ che ha vinto il mondiale o
infuocato le anime inglesi dell’Arsenal. Ed allora ecco che la notorietà calcistica
europea, si schianta al suolo. Il match finisce, gli Heat vincono la partita,
Gallinari ne segna 20 con 10 rimbalzi (James 24, ma a vincerla fu Wade che
chiuse a quota 34), il pubblico continua il proprio show, la stampa e gli
addetti ai lavori si avviano verso gli spogliatoi per il classico rituale delle
interviste durante il periodo di ammissione alla locker room. L’aria di attesa per
il lato degli spogliatoi degli Heat era frenetica, il gesto in cui tutti erano
impegnati era quello di allungare il braccio, liberare l’orologio e dare uno
sguardo al conto alla rovescia. Non per tutti ovviamente. Nomi e volti importanti hanno via libera per il semplice fatto di essere
nomi e volti importanti. In questo via vai si vede arrivare un atletico uomo di
colore e ben vestito, che si avvicina alla porta e tenta di entrare. A fermarlo è il classico
signore anziano in tenuta verde con tanto di cappello, insomma il nostro steward di
turno (da sottolineare anziano e il nostro classico steward) che esordisce: «Please you need to wait. It’s not allowed
yet. Ten minutes missing» che letteralmente sta per mancano ancora dieci
minuti abbi pazienza. Di fronte lo stesso uomo di colore replica dando vita al
più bel botta e risposta della mia esperienza americana: «I would like to meet LeBron James» (vorrei incontrare LeBron James);
«Absolutly, you need to wait just ten
minutes (certamente, basta aspettare dieci minuti)» le parole dell’addetto
alla porta; «But I’m Titì Henry…(ma sono
Titì Henry)» insiste l’uomo, «Ohh
nice to meet you, but you need to wait ten minutes (ohhh piacere di conoscerla,
ma deve aspettare dieci minuti)» l’ultima risposta dell’uomo che nel
pronunciare quelle parole aveva anche allungato la mano per lo ‘shacking’ rituale
della stretta di mano. Ilarità generale tra i presenti (risate grasse per due
giornalisti spagnoli che con ogni probabilità non avevano apprezzato la sua annata
al Barça) prima che le porte
si aprissero, anche per Thierry Henry. Welcome to New York City qualcuno avrà
pensato, ma di sicuro a distanza di anni, ma forse anche di qualche mese (al
gol contro i Galaxy fu eloquente l’esultanza indicando il nome dietro la
maglietta), quello stesso steward o chiunque altro avrebbe aperto la porta al
solo vederlo arrivare in lontananza. Ma il cuore
newyorkese necessita prima di infiammarsi per poi regalarti il calore che un
campione merita da una piazza che lo sport ce l’ha nel sangue. Anzi facciamo
nel Dna.
Storie di un 'vecchio diario' Americano
To be continued…
Domenico Pezzella
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