giovedì 29 gennaio 2015

PUERTA AGBONAVBARE

Wilfred Agbonavbare ai tempi del Rayo Vallecano
Dalla gloria del calcio internazionale, passando anche per i Mondiali di Usa ’94, in un cammino che racconta della morte della moglie, diventando un facchino all’aeroporto di Madrid-Barajas, fino alla scomparsa a causa di un cancro. Si è spenta, ad inizio settimana, la vita di Wilfred Agbonavbare, professione portiere e leggenda del Rayo Vallecano oltre che della sua Nigeria. Valleca non è certamente il quartiere più chic di Madrid; un quartiere operaio, a forte connotazione rossa che ha nella sua squadra di calcio il vanto e l’orgoglio. Schiacciato dalla presenza di Real e Atletico, il Rayo ha un nutrito gruppo di tifosi all’estero (me compreso) che vedono nello stadio Nuevo Valleca ed in quella maglia la lotta di Davide contro Gloria, la gioia del futbol vecchio stile alla sfarzosità delle rivali cittadine. Un’oasi bianca con banda rossa, che mi ha sempre affascinato. Sono stato a Valleca, ho preso un caffè nello stadio mentre, ad un tavolo, conversavano dei vecchietti con il leader degli SKA-P gruppo musicale che gronda di sangue rayito. Ho comprato la camiseta, giravo per Madrid fiero di questa divisa, gli sguardi attoniti di molti tranne in un momento che porto sempre nel cuore: fermo al semaforo, un uomo mi punta, mi guarda, si avvicina e mi dice solamente: “Vamos Rayito”. Questo è essere tifosi del Rayo, pochi e soli in città ma fieri. Agbonavbare era una leggenda di questo club, ha difeso strenuamente la porta blancoroja per cinque anni in 101 partite, è tra i protagonisti della promozione nella Liga nella stagione 1991-1992. A Valleca la sua leggenda non è mai tramontata. Era tra i 22 convocati nella Nigeria ad Usa 1994: la Nigeria che fece tremare gli Azzurri nell’ottavo di finale giocato a Foxboro. Era la riserva di Peter Rufai (ribattezzato ‘colla’ da Jose Altafini su Tele Montecarlo, perché quei mondiali andavano visti su TMC senza storie). Non ha giocato ma era lì, sul campo, quando Roberto Baggio ci fece scendere dall’aereo diretto a Roma. 
La pagina del sito del Rayo in ricordo di Agbonavbare
Con la sua Nazionale ha vinto la Coppa d’Africa in Tunisia quello stesso anno. Insomma, una vera leggenda. Anche in Italia era famoso, non per le gesta tecniche, ma perché Elio e le Storie Tese gli dedicarono una strofa nella canzone ‘Nessuno allo stadio’, colonna sonora di quel Mondiale; quei geni musicali cantavano: “Se Agbonavbare difenderà la propria porta nei mondiali di calcio americani, forse la Nigeria vincerà questi famosi campionati di calcio mondiali americani”. Poi la fine della carriera, la morte della moglie, la necessità di fare soldi da mandare ai figli a Lagos. Diventa facchino all’aeroporto di Madrid-Barajas: ci sono passato tantissime volte, forse l’avrò anche incrociato, peccato non averlo riconosciuto. Viene scoperto da un programma televisivo spagnolo, racconta la sua storia. Arriva il cancro, martedì la morte. A Valleca tutti lo ricordano ancora. Il Rayo ha deciso di cambiare denominazione alla ‘Puerta1’ dell’accesso allo stadio. Da oggi sarà Puerta Wilfred Agbonavbare. La Nigeria, poi, non ha vinto quei Mondiali, il Rayo non ha vinto la Liga, ma Wilfred rimane immortale. A Valleca e nel cuore di chi, come me, ama quella camiseta lontana dal Real e dall’Atletico: la maglietta blancoroja, uno degli ultimi baluardi di un calcio romantico.


Camillo Anzoini

mercoledì 28 gennaio 2015

GIUSTIZIA PER IL PIRATA

Marco Pantani vive nel cuore di tutti
Marco Pantani (il Pirata)
Cesena 13\1\1970
Rimini 14\2\2004
Ciclista su strada (scalatore puro)
46 vittorie in carriera
1 giro d'Italia
1 Tour de France (nello stesso anno)
1 bronzo ai mondiali del 1995

Escluso dal giro nel 1999 per i valori alti dell'ematocrito (al di sopra del consentito). Caduto per questo in depressione, morì in una stanza d'albergo per arresto cardiaco dovuto a presunte sostanza stupefacenti. Dopo 10 anni, nel 2014, la procura di Rimini ha riaperto il caso, archiviato a suo tempo come suicidio, ipotizzando l'omicidio volontario, come da sempre sostiene la famiglia.

La brutta storia del Pirata comincia ufficialmente nel 2001 quando partecipò al Giro ma si ritirò prima della 19esima tappa e al Tour de France la sua squadra non venne nemmeno invitata.
Da questo momento in poi, e dopo che la fondatezza dell'accusa di uso di sostanze dopanti cadde perché il fatto non sussisteva, sprofondò in una profonda depressione mentre l'immagine del corridore che tutti avevano si allontanava sempre più dalla sua persona.
Madonna di Campiglio, l'inizio della fine
Questa stessa brutta storia si concluse il 14 Febbraio 2004 quando Marco Pantani fu trovato morto nella stanza D5 del residence 'Le Rose' di Rimini. Quando una persona muore la prima cosa che avvertiamo forte è il dolore, e su questo siamo tutti d'accordo. Ma la seconda cosa è sicuramente il senso di giustizia e la necessità di capire cosa sia successo negli attimi prima che quel corpo cessasse di vivere e mentre noi non c'eravamo. Così è per tutti. Tutti pensiamo che, prima o poi, il morto parli e ci dica chi e cosa è stato. Anche la famiglia di Pantani ha provato e pensato le stesse cose, peccato però che la Procura di Rimini abbia prima deciso che si sia trattato di un suicidio post overdose da cocaina e altre sostanze e poi rimesso in gioco tutto per dare spazio e voce alle persone, a lui più care, riaprendo il caso con l'ipotesi di omicidio volontario rimettendo in gioco anche due personaggi da tempi additati come gli spacciatori. Ora cerco di spiegare quello che sappiamo di queste inchieste giudiziarie.
La signora Tonina, madre di Marco, ma così come tutta la famiglia, afferma che il modo che il corridore abbia scelto per suicidarsi è improbabile perché è in effetti improbabile che una persona per ucciderci ingerisca l'equivalente di 6 dosi di cocaina pura la 97%, soprattutto se pensiamo che il medico legale sospetta che fosse morto addirittura prima di ingerirla.
 La mamma Tonina non ha mai smesso di chiudere giustizia
Tonina sostiene anche di non riconoscere le firme che il figlio avrebbe usato per prelevare il denaro necessario a comprare quella stesa droga e che è alquanto strano che in quella stanza, per uno che ne faceva abitualmente uso come sostengono i magistrati, non ve ne era traccia.
Oltre a questi elementi, risulta strano anche il fatto che la stanza sembrava messa in disordine (ordinato) come in un film americano di rapine, un uomo da solo e in preda ad un overdose è difficile pensare che abbia quella forza in quei momenti, e che ci fossero lividi sul corpo e cibo cinese che Pantani non mangiava mai. Ora, dopo 11 anni quasi, essere ancora così vivo nel ricordo di tutti, sportivi e non, è sicuramente una grande riconoscenza ma pensare di lasciare il tutto impunito è sbagliato. Marco Pantani era uno che voleva vivere fino in fondo e che sicuramente non amava i compromessi o le mezza misure, fastidioso per molti nel mondo del ciclismo, si arrivò al punto in cui ben 7 procure indagavano su di lui, ma la sua gente sa che quel maledetto giorno a Madonna di Campiglio è stata una congettura, un affronto ad un uomo che purtroppo non si è più' rialzato, nemmeno dopo il retro front del C.O.N.I..
Ha chiuso la partita Marco, chiudendosi a riccio nella sua solitudine, ma noi siamo qui a cercare verità, la sua.


Tiziana Tavilla

domenica 25 gennaio 2015

LA STELLA DI WEISZ AL CIVICO 14

Roberto Solofria interpreta Arpad Weisz al Civico 14 (foto Ghidelli)
Il Teatro Civico 14 di Caserta è una delle realtà culturali più belle, genuine ed indipendenti della mia città. Un progetto che va avanti da anni tra mille sacrifici e sforzi dei suoi ideatori. Qui sono passati grandi del teatro, nazionali e non. Qui c’è voglia di lavorare bene senza fermarsi all’apparenza ed alla normalità dei calendari. Conosco quasi tutti coloro che ci lavorano, persone che hanno segnato la mia vita: ogni volta che riesco a farci un salto è sempre un piacere. Questa volta, però, sono stato addirittura invitato per la rappresentazione de ‘Il più grande del mondo - Vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo”. Un invito che ho accettato di buon grado perché l’argomento era una primizia, una gemma incastonata nella storia dello sport e non durante la Seconda Guerra Mondiale. Viviamo i giorni del ricordo e della memoria; il Civico 14, da sempre, è in prima linea per questo momento dell’anno. Hanno scelto uno sportivo, un giocatore, un allenatore, un uomo che, forse più di tutti, ci avvicina al dolore della Shoah per la sua semplicità e la crudeltà del suo destino.
Ad accendere una luce sulla storia di Weisz è stato il giornalista Matteo Marani (attuale direttore del Guerin Sportivo) che, nel 2007, ha tolto la naftalina ed il mistero sulla vita dell’allenatore ungherese morto nel 1944 ad Auschwitz. “Dallo scudetto ad Auschwitz. Vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo” è il nome del libro scritto da Marani (Editore Aliberti) che costa 11 euro ed è disponibile anche in eBook al prezzo di 7.49. Un lavoro che rappresenta l’inizio di un doveroso percorso alla scoperta di questo personaggio affascinante ma anche tanto lontano dall’Italia di questi tempi. Dopo Marani è arrivato Federico Buffa che, su Skysport, ha dedicato una puntata speciale proprio all’allenatore che vinse uno scudetto con l’Ambrosiana (l’attuale Internazionale) e due col Bologna. E domani sarà la volta di RaiDue che, alle ore 23:40, in occasione della “Giornata della memoria”, proporrà uno speciale “Arpad Weisz, dallo scudetto ad Auschwitz”. Insomma, se prima nessuno sapeva chi fosse Weisz, adesso è difficile non conoscerlo.
La copertina del libro di Matteo Marani
Ma torniamo in questo piccolo avamposto del teatro e della cultura in Terra di Lavoro. Il lavoro di drammaturgia è stato svolto da tre miei cari amici (non sono di parte, sono veramente bravi) Simone Caputo, Ilaria Delli Paoli e Rosario Lerro con Roberto Solofria; la regia è affidata proprio a Rosario mentre la sua dolce metà Ilaria è aiuto regia. Le scene sono state ideate da un altro mio caro amico Antonio Buonocore, i costumi sono opera di Alina Lombardi, le musiche sono di Paky Di Maio e le foto di Marco Ghidelli. Una squadra di altissimo livello, un cast di prima qualità (ribadisco, non sono di parte ma dannatamente onesto). Mi hanno confermato che questo spettacolo ha già avuto un ottimo successo sia al teatro che dalla critica (allora le mie parole non servono); girerà l’Italia in alcune tappe ma non toccherà Bologna e Milano, le due città di Weisz. Ancora non si è concretizzato nulla lì, ma questo spettacolo è perfetto a Bologna. E’ perfetto e sicuramente potrà avere tantissima gente in platea a vederlo, emozionandosi e commuovendosi perché Weisz racconta tanto, tantissimo, della Bologna dell’epoca.
Per rendere diverso e originale il loro lavoro, gli ideatori dello spettacolo si sono spinti fino alla prima apparizione di Weisz sul suolo italico. All’epoca giocava per la nazionale ungherese che disputò un’amichevole a Genova contro l’Italia. Un particolare inedito, arricchito dall’acquisto fatto su Ebay della Gazzetta dello Sport originale del 5-3-1923 (come hanno fatto a trovarla, per me, resta un clamoroso mistero): un pezzo storico che, ora, è gelosamente custodito al Civico 14. “La storia di Arpad mi ha affascinato fin dal momento in cui mi è capitato tra le mani lo splendido libro di Marani. Ripensare al calcio di quasi 100 anni, quello delle magliette di lana, dei calzettoni tenuti su dalle fasce, delle storie di uomini che inseguivano un pallone e non la ricchezza mi ha immediatamente immerso nell’atmosfera epica in cui si è consumata la tragedia di Weisz. Un uomo famoso, il miglior allenatore d’Europa che finisce su un treno per Auschwitz insieme alla sua famiglia. Una storia come milioni di storie che hanno loro malgrado fatto parte della più grande tragedia che il genere umano abbia vissuto. Abbiamo provato a costruire una scatola di ricordi dentro cui abbiamo trovato le immagini di un uomo e della sua famiglia, sradicati dalla città in cui vivevano, allontanati dall’affetto dei cari, spaventati e impotenti di fronte al destino che si avvicinava attraverso documenti, leggi, intimidazioni»,  voce e parole di Rosario Lerro.
Guarin e Zanetti dell'Inter vestono una maglia che ricorda Arpad Weisz
prima di Inter-Bologna di Coppa Italia il 15 gennaio 2013
Ora, lungi da me addentrarmi in discussioni sulla parte tecnica dello spettacolo (non ho la competenza e lo studio per dire ‘a’ su tale argomento) e non farò una recensione vecchio stampo; posso parlare solo delle emozioni provate in quei 55 minuti e… sono state tante ed indimenticabili. Per un profano del teatro come me, vedere uno spettacolo di meno di un’ora è già sinonimo di perfezione perché posso restare concentrato dall’inizio alla fine senza mai perdermi. Bellissimo il palcoscenico, gli abiti usati, ma anche tutto il resto. Bravissimo l’attore Solofria che ha dato ritmo alla serata con un mix di notevole qualità: momenti di silenzio che valevano più di mille parole, voce più forte in passaggi chiave, sguardi, sorrisi e movimenti che rendevano alla perfezione lo stato d’animo del ‘nostro’ Weisz.  Perfetto anche il gioco di luci ed ombre, impreziosito dalle candele che hanno reso il palco ancora più suggestivo ed accattivante. Così come la lavagna dove venivano riportate le fasi della vita di Arpad.
Durante lo spettacolo, con un finale veramente da brividi e straziante al tempo stesso, rimbomba nella mia mente una frase del copione: “Le leggi antisemite sono uno stupro”. Le pronuncia il Weisz interiore, lo urla tutto il mondo avvolto dall’infamia della Shoah. Ogni volta che vedo un film, un documentario o qualsiasi cosa riporti alla mente quel tremendo periodo storico, provo una grandissima commozione ogni qualvolta vedo la stella di David sul cuore del deportato di turno. Una stella cucita sul petto, straziante. Un simbolo che vale più di mille parole, che è stato sporcato da tanto, troppo, sangue. Anche nello spettacolo del Civico 14, il momento che vede l’attore Solofria impolverato con quella grande stella sul cuore, ammetto che la mia personale emozione ha raggiunto livelli di guardia.
Ma, poi, se penso alla vita di Weisz preferisco usare la frase di chiusura dello spettacolo: “Il calcio non c’entra più niente, la partita è finita”. E per Arpad finì troppo presto.

Camillo Anzoini


Arpad Weisz
IL TABELLINO DELLA PRIMA PARTITA DI WEISZ IN ITALIA

Genova - Stadio Marassi domenica 4 marzo 1923 
ore 15.00

ITALIA-UNGHERIA 0-0

ITALIA: Trivellini, Caligaris, De Vecchi, Barbieri, Burlando, Brezzi, Migliavacca, Baloncieri, Santamaria, Cevenini L., Bergamino (Monti F. 46) - Allenatore Commissione tecnica della FIGC
UNGHERIA: Plattko, Fogl II, Fogl III, Kertesz II, Baubach, Blum, Braun, Molnar, Orth, Hirzer, Weisz A. - Allenatore Kiss

ARBITRO: Forster (Svizzera)

giovedì 22 gennaio 2015

'SON OF DOOM'

James e Joe Laurinaitis, l'uno nei panni dell'altro
Difficile – sarebbe troppo dire impossibile - trovare un filo conduttore tra Football, Wrestling, un milione di dollari, Big Jim, la città di Saint Louis, quella di Chicago, di Philadelphia, il Draft, Mad Max 2, Mel Gibson ed altri ancora, se non si conoscono bene i dettagli della storia. Probabile che sia stato difficile provare a trovare un filo conduttore anche per chi quei dettagli li conosce, conosceva o li ha conosciuti. Ma ci abbiamo provato e il tutto potrebbe essere riassunto nella più classiche delle ‘fairy tale’ quella che esordisce con il ‘…c’era una volta…’ o restando nel mondo delle stelle e strisce statunitensi con il ‘…once upon a time…’ reso altrettanto famoso al mondo dai Pearl Jam, che ne hanno fatto uno dei loro personali successi. Che siate amanti delle favole, che siate amanti del grunge, il succo non cambia, il punto di partenza resta sempre lo stesso, quello da cui partiremo per raccontarvi stralci di vita della famiglia Lauirinaitis ed in particolar modo di papà Joe e del figlio James.

Joe 'Animal' e il piccolo James
ONCE UPON A TIME - Aprile del 1986, il primo in cui la Jim Crockett Promotions (piccola parentesi su uno dei primi wrestler professionist; natio della Virginia e che nell’ambiente era meglio conosciuto con il nome di Big Jim e probabile ispiratore della bambola al maschile e notoriamente considerato l’eterno amore di Barbie) mette in palio un milione di dollari per un torneo fatto solo ed esclusivamente per ‘tag team’ o volgarmente definiti incontri di coppia per wrestler semi professionisti o quasi. All’appello risposero personaggi più o meno famosi e che per gli amanti del Wrestling suoneranno molto ma molto familiari, mentre ad altri solo nomi in uno scritto. Ma se vi va, spulciando all’interno dell'Albo d’Oro (tre anni di esistenza per il torneo organizzato dal figlio e successore Jim Crockett Jr. e facilmente reperibile su Wikipedia) potreste posare lo sguardo su di un nome che a prima vista non vi dirà nulla, ma che con un click vi porterà all’esclamazione successiva “Ah certo li conosco”. Road Warriors (anche qui se vi sembra di averlo già sentito è solo perché l’origine del nome è tratto da uno dei primi noti film di Mel Gibson, Mad Max 2). Questo il nome del tag team che ha iniziato e concluso senza mai essere schienato con uno dei due componenti che aggiunge alla nascita del primogenito, James, nel marzo precedente anche un gruzzolo niente male per guardare alla sua crescita. Un tag team che aveva iniziato a muovere i primi passi tre anni prima soprattutto  all’interno di quelle che nel calcio o in altri sport affini, verrebbero definite come le categorie inferiori o le minors. Hawk e Animal. E se avete cliccato è arrivato il momento dell’esclamazione. Due che da quella vittoria al Jim Crockett di avversari schiena a terra ne misero talmente tanti che la WWF (World Wrestling Federation) volle a tutti i costi, ma non con quel nome. Non più Road Warriors perché erano solo una leggenda delle ‘minors’ , ma ‘Legion of Doom’. La Legione del Destino. Lo stesso ‘destino’ che avrebbe regalato a James, il primogenito di cui sopra, l’appartenenza ad un club particolare: quello delle celebrità, quello degli sportivi non del football, baseball, calcio o quant’altro, ma quello della lotta quello dei Legio of Doom e di papà ‘Animal’ aka Joe Laurinaitis.


Festeggiando l'onorificenza ai tempi del College ad Ohio State
FATHER AND SON – Undici maggio 1997, Pay Per view In Your House episodio ‘Cold Day in a Hell’ (quello per intenderci nel quale ‘Animal’ insieme al fido Hawk sconfissero i campioni di coppia Owen Hart e The British Bulldog) il giovanissimo James Laurinaitis era con il papà e l’amico d’infanzia Dominique Barber e con il quale ha condiviso il football non solo all’high School ma anche come oggetto principale dell’università e poi quello professionistico anche se in due squadre differenti. La location era quella degli spalti deserti un paio d’ore prima che il sipario venisse alzato. A poche sedie di distanza Stone Cold Steve Austin (che avrebbe affrontato The Undertaker) che rivolgendosi ad Animal gli dice far passare in serata i due ragazzini in prima fila. Quando arriva il momento dello show giunge anche il momento di un siparietto con uno dei più famosi e titolati wrestler al mondo. Il classico ‘un giorno a lavoro con papà’. Ma nonostante tutto, nonostante la carriera brillante, il successo ed i successi dentro e fuori dal ring, le action figures (provate ad indovinare i preferiti del piccolo James), i giocattoli e tanto wrestling - fatto anche di presenze frequenti come quella dei componenti degli allora Natural Disaster Typhone ed Earthquake - la lotta ed il ring sono sempre rimasti un hobby, un qualcosa legato più all’infanzia, al padre e al rispetto per il genitore. Già perché alla fine James sceglie il football. «Per me essere stato ‘Animal’ era come vivere Halloween per 365 giorni l’anno. Ma quando tornavo a casa il costume e il Wrestling finivano nel ripostiglio ed ero solo Joe, nel ruolo esclusivo di padre. Il football? L’ho capito subito che per James era una passione particolare, glielo si leggeva negli occhi. Stessa cosa per il ruolo. Cosa mi diceva? Papà guarda quello in mezzo – in the middle – guarda il linebacker» ha raccontato lo stesso Joe ‘Animal’ Laurinaitis in una sorta di intervista a doppio racconto proprio con il figlio di qualche anno fa. «Quello che ho imparato da mio padre è stato non dare mai niente per scontato, mai rilassarsi ed essere superficiali se si vuole raggiungere il successo. Che padre era? Normale. A casa facevamo quello che tutti fanno con i lori genitori. Solo che lui era ‘Animal’» la risposta di James che per il football sceglie l’università di Ohio State e da quel momento tutto cambia e magicamente i ruoli si invertono. Da protagonista a tifoso. L’uno nel ruolo dell’altro. L’uno pronto di nuovo ad essere parte della vita, del successo e dei successi sportivi dell’altro. Tutto come in un normale ciclo della vita, tutto come in qualsiasi altra famiglia americana e non, anche se di sicuro non passava e non passa inosservato nel ruolo di ‘genitore scatenato’ un
Un tifoso dei Rams in pieno stile Legion of Doom
energumeno con tanto ancora di ‘mustache’ e capelli sbarazzini, grosso nella parte superiore del corpo nel modo giusto per far capire che la sala pesi no è e non è stata cosa a lui sconosciuta, che si alza ad ogni placcaggio, ad ogni sack del proprio figliolo, ispirando alle partite casalinghe tifosi con tanto di spuntoni proprio in pieno stile Legion of Doom di cui magari erano fans ai tempi della High School. All’appello della storia, però, manca il capitolo finale, l’anno 2009: Draft NFL, James Laurinaitis scelto al secondo giro (35esima assoluta, in fondo a questo racconto il video in cui Joe ‘Animal’ presenta il giorno del Draft del figlio dopo un workout proprio con i Rams) e da quel momento non ha mai più lasciato il campo e quel ruolo ‘in the middle’ da linebacker terrificante nella difesa di Saint Louis. I suoi numeri gli sono valsi un rinnovo contrattuale pluriennale nel 2012, la fama sportiva, un tifoso speciale e la possibilità di non essere solo ed esclusivamente il figlio di ‘Animal’. Manca altro? Beh il papà la cintura di campione del mondo di coppia l’ha alzata ed anche più volte, James è ancora in attesa di mettere le mani sul Superbowl. Ma per questo i Rams si stanno attrezzando, facendo del numero 55 il simbolo della rinascita della linea di difesa.

Domenico Pezzella



mercoledì 21 gennaio 2015

IL RICORDO, IL PUGNO E IL BLACK POWER

Smith e Carlos sul podio delle Olimpiadi
di Città del Messico
Il terzo lunedì di Gennaio gli americani, noti per molte cose ma anche per il loro attaccamento alle mille celebrazioni annuali, hanno commemorato Martin Luther King, il leader per la lotta all'uguaglianza razziale. Da Washington a New York, passando per Seattle e Boston, diverse sono state le citazioni per ricordare quest'uomo che credeva nei diritti civili. Bene, come potevamo non rievocare una guida di tale spessore anche noi, considerando che lo sport e gli sportivi, dagli anni 60 ad oggi, hanno spessissimo fatto riferimento a Luther King e alla sua lotta alle discriminazioni. Tra tanti ho scelto un episodio e due persone che un giorno, il 16 Ottobre 1968, hanno cercato di fare la differenza. 
Sono Tommie Smith e John Carlos due atleti che svegliarono il mondo dai gradini del podio olimpico di Città del Messico. Sei mesi prima a Memphis c'era stato l'assassinio di M.L.K. Subito dopo era toccato a Robert Kennedy e molti sportivi stavano valutando l'ipotesi di boicottare i Giochi anche cavalcando l'onda polemica di Muhammad Ali, che aveva appena rifiutato l'arruolamento nell'esercito per motivi di coscienza e si era visto strappare il titolo dei pesi massimi, e di Kareem Abdul Jabbar, cestista, che cercò di rinunciare proprio alla nazionale olimpica. Insomma, era un periodo molto travagliato fuori e dentro dagli stadi fatto anche di proteste studentesche represse col sangue dal governo messicano (la famosa strage del 2 ottobre a Tlatelolco dove rimase ferita anche la scrittrice Oriana Fallaci). 
Tommie Smith, texano nato nel giorno dello sbarco in Normandia e cresciuto riempiendo ceste di cotone, e John Carlos, nato ad Harlem e arrivato allo sport con una borsa di studio, erano tra i velocisti più forti del paese e infatti salirono entrambi sul podio quel caldo giorno di Ottobre, uno al primo e l'altro al terzo gradino. La differenza, di cui vi parlavo prima, la fecero nel momento in cui partì l'inno. 
Anni dopo ripropongono il gesto
che li ha resi famosi
Lo ascoltarono col pugno chiuso, in un guanto nero, contro il cielo, senza scarpe ma con calzini neri e la testa bassa e portarono il Black Power dentro il recinto sacro dello sport. Con quel gesto entrarono nella storia e nei poster di una generazione. 
Icone di un'epoca di grandi cambiamenti che due atleti infiammarono pacificamente nel momento più' alto della loro carriera, pagando quell'atto di coraggio civile con l'isolamento e l'ostracismo per tutta la vita ma dedicanti quella medaglia ai fratelli e alle sorelle che venivano linciati, umiliati ed esclusi nella terra delle pari opportunità. Qualcuno su di loro ha scritto: 'Gli sprinter che fecero la rivoluzione con un pugno, senza far male a nessuno. Dopo di loro lo sport non sarebbe più' stato così politicamente sfrontato. Ma nemmeno, più, così innocente'. 











Tiziana Tavilla

IL CUORE DELL’ATLETICO, SBANCATA SAN MARCO

 Una fase del match San Marco vs Atletico PKH (foto Tanaka)
SAN MARCO EVANGELISTA         62 
ATLETICO PKH                             72
       
SAN MARCO EVANGELISTA: Di Maio 4, Ferraiolo 6, G.Gallo 12, P.Gallo 3, Medici, Buono 18, F.Vitrone 4, Cerreto 8, Sangiovanni, Vigliotti 10, V.Vitrone. All. De Matteo.
ATLETICO PKH CASERTA: Pezzella, Stellato, Mazzariello 15, Iodice 25, Anzoini, Laudisio 11, Di Silvestro, Romitelli, Ranieri 7, Visone 4, Baccaro 10, Dell’Imperio.
ARBITRI: Camerlingo e Paragliola.
PARZIALI: 17-19, 28-34, 48-49.

Quando la voglia, il cuore e la testa sanno fare la differenza: splendida vittoria dell’Atletico PKH (targato GoldwebTv, Caserta Drink Øl, GoldBetCafè, Centro Genesis, T&T Impianti e Copynet) che sbanca l’Istituto Comprensivo Viviani e conquista due punti contro la rivelazione del girone B. San Marco Evangelista cade in casa al termine di una vera battaglia che ha appassionato i tanti presenti alla palestra sanmarchese e che ha avuto anche attimi di nervosismo un po’ troppo acceso. Una vera battaglia sul campo che, alla fine, ha premiato i casertani che, nonostante la lunghissima lista di assenti, hanno fatto leva sul loro cuore per conquistare due punti pesantissimi. La vittoria del gruppo contro una formazione che si è rivelata tosta, dura e quadrata; vincere a San Marco sarà impresa ardua per chiunque, il PKH c’è riuscito e si gode questi due punti che lo proiettano in vetta al girone in coabitazione con Piedimonte Matese.

LA CRONACA. Avvio veemente dei locali reduci dalla sorprendente vittoria contro i Rewinps: Federico Vitrone con 4 punti ed una tripla di Ferraiuolo portano avanti i padroni di casa sul 9-4. L’Atletico incassa il colpo e comincia a giocare sotto la splendida regia di Baccaro autore di una prestazione eccellente: la palla inizia ad andare sotto canestro dove Visone, Ranieri ma soprattutto Iodice martellano gli avversari. Iodice, col passare dei minuti, diventa un rebus impossibile da risolvere per il San Marco: realizza 10 punti in un primo periodo di grandissima qualità. Gli ospiti prendono il comando anche se non riescono a piazzare un break cospicuo. Romitelli, Di Silvestro e Pezzella si alternano e tengono altissima l’intensità difensiva mentre i locali restano in scia grazie ai punti di Giuseppe Gallo. Intanto c’è l’esordio stagionale anche di Dell’Imperio che, seppur in ritardo di condizione, regala minuti preziosi. La gara si accende, di colpo, dopo un fallo di Ranieri proprio su Gallo: tra spintoni e parole grosse, entrano anche dei tifosi di casa in campo e gli arbitri faticano a riportare la calma in cinque minuti di vera bagarre. Una bomba di Mazzariello ed ancora l’eterno Iodice consentono ai rossoblu casertani di avere il muso avanti. Il primo tempo si chiude con un pazzesco buzzerbeater di Ranieri che brucia la retina da centrocampo. La ripresa è una vera battaglia che, a tratti, diventa una corrida. Buono prende per mano i suoi, Laudisio sale di giri, Stellato fa a sportellate in vernice ma i locali impattano a quota 42. Piace tantissimo Mazzariello che, oltre a segnare, gioca benissimo in difesa come del resto Visone che si sacrifica per il bene della squadra. Si va avanti punto su punto fino al 62-62 al 38’ quando la partita gira completamente: triplone di Mazzariello, difesa dura dei casertani e San Marco comincia a perdere la testa. Buono, il migliore tra i suoi, si fa sanzionare un tecnico: Laudisio infila tre liberi consecutivi. Ancora la difesa del PKH non fa passare nulla, i locali ormai hanno mollato ed anche Vitrone si becca la grande T: Mazzariello non trema dalla linea della carità e l’Atletico PKH porta a casa due punti veramente pesanti.

domenica 18 gennaio 2015

CORRI SALIF CORRI

Salif Dianda torna a correre per la Ternana
“Se puoi camminare, puoi giocare” è una delle frasi storiche di Isaiah Thomas, incatenvole playmaker dei Detroit Pistons. Il problema, però, è quando rischi di non poter neanche più camminare. Già è tanto se riuscirai un giorno a camminare regolarmente, figuriamoci se puoi pensare minimamente di tornare a calcare il manto erboso. Poi, un passo alla volta, intervento dopo intervento, giorno dopo giorno, allenamento dopo allenamento, finalmente arriva il giorno che hai sognato. Quel giorno è il 17 gennaio 2015, il minuto è il sessantreesimo e la tua squadra vince comodamente 2-0. La maglia è quella dell’ultima volta, è a strisce rossoverdi della Ternana. Lo stadio è il tuo, lo stesso di quel maledetto giovedì 28 marzo 2013, è il Liberati di Terni. Quel maledetto giorno Salif Dianda, nazionale del Burkina Faso e pendolino della fascia rossoverde, dopo appena 2’ abbandona il campo in lacrime: un contrasto con Andrea Caracciolo del Brescia (contatto che ho visto e mi sembra uno come tanti) segna l’inizio della sua via crucis. In quello scontro ci lascia il legamento crociato anteriore e il legamento collaterale esterno del ginocchio. Un infortunio come, purtroppo, se ne vedono tanti ma quello di Dianda va oltre le più pessime previsioni. Viene operato, per la prima volta si parla di 10 mesi di stop… una vera enormità. Non basta un intervento, occorre il secondo a distanza di tre mesi dal primo. Intanto gli scade il contratto con la Ternana che, però, acquista il suo cartellino dandogli ancora una speranza di riprendere l’attività che, comunque, è sempre lontana. Lontanissima. La sua via crucis è senza fine: nel maggio 2014 viene operato per la ricostruzione del legamento crociato anteriore del ginocchio. Ha rischiato seriamente di rimanere zoppo, di avere una vita complicata, figuriamoci se può mai pensare di tornare a calciare un pallone. 
Il contrasto con Caracciolo, l'inizio della via crucis
Anche perché chi può ancora aspettarlo dopo tutto questo tempo? La Ternana, invece, fa un gesto non da calcio moderno che ti scarica subito appena ne ha la possibilità. Il club umbro ci crede ancora, gli allunga il contratto e Salif torna a sorridere. Torna ad allenarsi, torna a vedere la luce in fondo al tunnel, torna a vedere un futuro sui campi di calcio. La Ternana si dimostra una società ‘vecchio stampo’, con immensi principi, e sta al fianco di Salif fino al 13 dicembre del 2014 quando gli consegna la fascia da capitano della squadra Primavera per il suo ritorno in una partita ufficiale. La partita vera, però, è quella col Crotone in serie B, 21 mesi dopo l’infortunio. Il finale è perfetto? No, Salif viene espulso dopo 27’. Per oggi, però, va bene così e quel cartellino rosso non scalfisce la gioia di averlo rivisto in campo. Corri Salif, adesso puoi correre.




Camillo Anzoini


mercoledì 14 gennaio 2015

TRIANGOLI NON SOLO IN CAMPO

Joe Cole famoso per la sua fuga dalla finestra
Ragazzi questa settimana facciamo il botto!
Ecco quello che ho pensato appena ho avuto ‘l’ispirazione’ per il mio secondo pezzo.
Scrivo dei pettegolezzi del calcio.  Ecco, secondo voi, in questo sport centenario, fatto di milioni di calciatori con annesse fidanzate, mogli, amanti, amiche, figlie, nipoti e chi più ne ha più ne metta, volete che non c’è una storiaccia?! Una!? E allora mi sono messa alla ricerca su internet e sotto il manto verde ho trovato storie e curiosità da far tremare il miglior sceneggiatore di Beautiful. Ve le do in pasto. Divertitevi e prendiamo tutto col beneficio del dubbio.
Comincio con una treschetta oltre manica. Joe Cole.
L’ala dell’Aston Villa, ai tempi del West Ham esce una sera e in un pub conosce una ‘subrettina’ molto famosa da quelle parti. L’ultimo shot li porta a casa di lei, ma ad un certo punto, come nei peggiori film di Rocco, spunta il marito di quest’ultima, e Joe secondo voi che fa!? Ebbene si, si cala nudo e senza scarpe dalla finestra cercando un taxi che lo riporti a casa. L’ala imprendibile non si smentisce nemmeno fuori dal campo. Voto per la performance: 5.  Joe basta guardare filmettini dalle misere regie nei ritiri, però eh!
Tocca a casa nostra. Triangolo Iezzo, Domizzi e la moglie di Domizzi.
Faustino Asprilla scattava anche a letto
Il Napoli era una squadra felice e compatta quando ad un certo punto scoppia la rissa a Castelvolturno. Gente in tuta racconta che Domizzi entrò in campo con una mazza da baseball diretto verso il portiere costringendolo poi a saltare parte del campionato. Lo puniva per la storia parallela che aveva con sua moglie. Conseguenze!? Iezzo infortunato e Domizzi cambiò squadra. Voto per la tresca: 3. Banale.
Per la serie ex calciatori il primo che nomino è Faustino Asprilla.
Molti dicono che il colombiano avesse ‘immense doti’ ma tra queste sicuro c’era quella di attore. Mandò la moglie e la figlia a casa oltre oceano dicendo che era per il loro bene, si ragazzi… a Parma faceva troppo freddo caspiterina… e intanto lui recitava parti di film porno privati con la pornostar Petra. Voto 10 per la ‘palla’, e non quella in mezzo al campo, eh.
Intanto ci fu un gravissimo incidente lungo l’autostrada Torino\Piacenza. A bordo della macchina c’era sicuramente Gianluigi Lentini, doveva cambiare una ruota ma il ‘ruotino’ lo tradì, e si narra che però con lui c’era Rita Schillaci, che invece tradita Totò. Voto 2 a Lentini per la sfortuna e 10 a Totò per la conseguente fuga in Giappone
Gianluigi Lentini scoperto dopo l'incidente
La prossima si divide in due cose comiche. La prima è che il vero nome di Franco Baresi è Franchino. Franchino Baresi. E la seconda è che si dice, secondo una ‘leggenda’, che suo figlio sia in realtà di Gullit. Ho cercato foto di questo Baresi jr per vedere se il suo colore poteva essere utile alla mia ricerca della verità ma non è pervenuta alcuna immagine. Voto 9 ma solo perché è il voto che gli ha dato la Gazzetta nella finale del mondiale del ’94, il voto più alto di sempre. Bravissimo Franchino.
Cito ora due stranieri, Glenn Peter Stromberg e Paulo Sousa. Il primo portò a vivere con lui a Bergamo il convivente e il secondo che faceva giri sulla giostra della figlia di Lippi che a sua volta faceva girare anche Tacchinardi ogni tanto, e cito anche un italiano, Gianluca Pessotto. Voci sostengono che abbia tentato il suicidio perché trovò la moglie a letto con Mutu. Voto 10 allo svedese per il coraggio. Voto 5 a Sousa per la sveltina condivisa. Voto 2 a Pessotto perché lo diceva anche Massimo Ranieri, ‘d’amore non si muore’, ma soprattutto non si ‘vola’.


Tiziana Tavilla

lunedì 12 gennaio 2015

BUONGIORNO PALESTINA

Abdallah Jaber ed il suo look alla Vidal
Ore 7.45, suona la mia sveglia. Ore 8, nel cielo di Newcastle (in Australia) si alzano le note dell’inno nazionale. Occhi lucidi, sguardi fieri, cuori gonfi: la Palestina debutta nell’Asian Cup 2015 (l’equivalente del nostro Europeo). E’ la prima volta ufficiale per la giovane nazionale araba in questa competizione così importante e affascinante che blocca un intero continente per tre settimane intorno ad un pallone. L’inno cantato a squarciagola sotto due gocce d’acqua in mezzo al sole; le bandiere che sventolano fiere da parte degli immigrati o rifugiati, le donne con le kefie, i ragazzini, gli adulti con le trombette. E c’è il look di Abdallah Jaber che sembra Arturo Vidal. Si gioca in Australia perché la federazione aussie è affiliata alla confederazione asiatica ormai da anni. Dall’altro lato c’è il Giappone, una vera potenza continentale guidata dal messicano Javier ‘El vasco’ Aguirre e forte di giocatori come Honda, Nagatomo e Kagawa. Il cliente peggiore per cominciare questo cammino, ma il risultato oggi non conta. Conta esserci con la propria divisa rossa ed il simbolo sul cuore. Il primo obiettivo, comunque, è difendersi dalla furia dei Blue Samurai; il muro palestinese resiste 8’ prima che il veterano Yasuhito Endo buchi capitan Saleh dalla lunga distanza. Al 24’ anche la sfortuna ci si mette: una carambola permette a Okazaki di raddoppiare. Piace sempre la sportività palestinese; ogni volta che viene steso un nipponico, una stretta di mano e le scuse. Merce rara in questo calcio moderno. Al 42’ ci si mette anche l’arbitro assegnando un generoso rigore al team del Sol Levante: facile trasformazione di Honda. 
Sakai entra duro sulla stella Al Fawaghra
I ragazzi guidati da Al Hassam incassano il quarto gol in avvio di ripresa quando Yoshida fa valere i centimetri e segna con una bella capocciata. Viene espulso Mahajna per doppia ammonizione, nella ripresa fioccano i ‘gialli’ e gli interventi duri più per stanchezza che per reale cattiveria. Il talento Al Fawaghra, che si ispira a Cristiano Ronaldo, fa vedere qualche bel numero. Il migliore in campo è il portiere e capitano Ramzi Saleh che, tra uscite spericolate, dribbling e parate, è il mio mvp. Finisce 4–0 ma fa nulla. La Palestina, seppur giovane come nazionale di calcio, occupa il posto 115 del ranking Fifa ed è quattordicesima a livello continentale. Ha staccato il biglietto per l’Australia vincendo la Challenge Cup dove, nell’ordine, ha eliminato il Kyrgyzstan, Myanmar (l’ex Birmania), Afghanistan e le Filippine nella finalissima. Già essere qui è un motivo di vanto ed orgoglio, già poter vedere la propria bandiera sventolare deve essere un segnale di speranza da lanciare al mondo. Una nazionale che, nel corso della sua giovane storia, è stata decimata con ben quattro nazionali uccisi nei vari raid israeliani o addirittura arrestati. Un pallone non potrà mai alleviare le sofferenze, ma nelle due ore del match sicuramente il popolo palestinese si è unito ancor di più. Retorica? Forse sì, ma anche no se si pensa alla potenza dello sport, del calcio: 90 minuti per sognare e poi di nuovo a vivere la propria difficile esistenza. La Palestina ha dato un calcio ad un pallone sull’erba australiana, sembra poco ma non lo è.


Camillo Anzoini

L’inno palestinese prima del match



domenica 11 gennaio 2015

MWEENE E L’ORGOGLIO CHIPOLOPOLO

Kennedy Mweene è un eroe nazionale nello Zambia
"Era mia, mia, mia / l'ho gridato e non hai sentito / su di lui ti sei precipitato / l'hai atterrato. / Solo davanti / a questa porta spalancata / mentre il centravanti mi guarda. / Solo quando c'è il rigore / vi ricordate di me, / del vostro portiere / ditemi perché." Stefano Benni magistralmente ha delineato una delle immagini calcistiche più belle di sempre, e ci fa da Virgilio nella nostra storia, non una banale, come ci si aspetta naturalmente, "non così speciale" per il suo protagonista, che in una lingua difficilmente comprensibile, e che noi traduciamo alla buona in inglese, conclude sempre ogni sua partita con un "Ordinary day". Kennedy Mweene sembra un nome uscito da uno dei taccuini dell'esploratore Livingstone, e probabilmente è così visto che il cognome all'anagrafe sarebbe Jones, cambiato a 19 anni con questo "soprannome" che ora lo rende riconoscibile a tutti. E' un nome tribale, perchè nelle latitudini africani il mistico e la verità, così come il sacro e il profano, tendono a miscelarsi e divenire qualcosa di particolare, o forse più semplicemente in uno stato che ha tanto subito la prevaricazione coloniale, per le sue miniere di rame, un cognome anglofono stonerebbe, specie se sei un leader in campo e nella vita. Del resto lo Zambia ha poca tradizione calcistica, seppure vanta nel suo almanacco parecchi scalpi illustri, ma mentre nel continente nero abbiamo le Aquile (nigeriane), gli Elefanti (ivoriani), i Leoni Indomabili (camerunesi) o i Cammelli (egiziani), qui nessun animale ha sposato la causa dei "Chipolopolo" ovvero dei "Proiettili di Rame", seppure una piccola aquila compare anche sulla bandiera. Le cascate Vittoria e le acque dello Zambesi (e qui il retaggio inglese continua a fare il suo corso) sono forse alcuni degli scenari più belli regalati dal continente africano, ma qui sono come baluardi invalicabili, che anzi segnano il passo tra il passato (che ha anche un nome geografico, ovvero Rhodesia) e la modernità di Lusaka, che dopo tante, troppe, vicissitudini politiche, sta cercando di emergere nella sua modernità. 
Ma stiamo tergiversando e abbiamo lasciato il nostro ragazzo che ha ottenuto il cambio del suo cognome, anche se ci tocca fare un passo indietro. Nato nel 1984, troppo giovane per ricordarsi del famoso 4-0 che i suoi connazionali rifilarono all'Italia di Tacconi, Mauro, De Agostini alle olimpiadi di Seul, la sua fanciullezza è segnata da una delle tragedie nazionali, che ha a che fare col calcio. Lo schianto dell'aereo nei pressi di Libreville, Gabon, che stava portando la squadra più forte di quegli anni a giocarsi la qualificazione a Usa 94' in Senegal, e che pone fine ad un'intera generazione di calciatori di indiscusso talento, scuote il giovane Kennedy, già con le treccine che lo han sempre contraddistinto. Sarà un calciatore e insieme a molti figli di quella generazione, proverà a riscrivere una storia spezzata. Già, ma come? Se la nazionale maggiore è formata da una under 17 a cui si aggiunge il grande campione Bwalya (che era scampato a quell'aereo maledetto solo perchè si trovava ancora in Olanda al Psv dove stava giocando), questo significa che le nazionali minori si troveranno sempre giocatori più grandi, più esperti e con più cattiveria agonistica da fronteggiare. E di vittorie ne arriverebbero pochine. Lasciate tempo al tempo, tutto sarà utile poi. Lo Zambia dopo anni di farraginosa ricostruzione, con Kalusha Bwalya sempre in prima linea a dare consigli, si barcamena nella parte bassa dell'elite: riesce molto spesso, anche grazie a gironi non impossibili, a strappare il pass per la Coppa d'Africa ma quasi mai supera il girone e molto spesso prende delle imbarcate colossali. E' il 2012 e a circa 20 anni dalla catastrofe, si torna a giocare a Libreville. Kennedy è il leader spirituale di quella squadra. La sua voce è più di un monito per i suoi compagni in difesa, che spesso però la ignorano (e Benni ritorna con i suoi versi a cantare), ma c'è un 'ultimo baluardo' come aveva scritto Saba. C'è chi diceva che dopo N’Kono non c'erano stati altri grandi portieri, ecco la prossima missione: riportare in alto la sua nazionale, come si era già ripromesso, e diventare il miglior portiere del continente nero. Di tiri ne arrivano eccome, ma lui oltre che un'innata agilità, ha la capacità di capire un secondo prima quello che avverrà, ed in quelle stesse frazioni agire, anche d'impulso, con coraggio a sbrogliare la situazione. Non solo, forse con le mani se la cava (eccome) ma i piedi sono delicati, è il regista arretrato della squadra, sa dribblare e... si prende parecchie responsabilità. L'avrete già sentito per altri giocatori ma qui è diverso, ma ci arriveremo. 
Lo Zambia vince il suo girone, elimina in semifinale il fortissimo Ghana al completo con un gol di Mayuka in diagonale, ma la vittoria 1-0 vede ben 22 tiri delle Black Stars dalle parti del nostro protagonista. Salva due volte su Muntari a botta sicura, prende una punizione di Boateng destinata all'incrocio e a pochi dalla fine, da terra, di puro istinto devia sulla traversa un piattone di Gyan. In lacrime a fine gara, tutti i giocatori della squadra avversaria gli tributano un saluto, ma lui dopo qualche sorriso tira dritto, a tenere alta la concentrazione dei suoi. 
Dopo il rigore parato a Drogba nella finale di Coppa d'Africa
La finale è contro la Costa D'Avorio, e se volete una motivazione del perchè Drogba vesta ancora la "arancione" allora mi sa che dovrete chiedere al nostro numero 16. Come #16? "l'uno se lo prendono coloro che hanno già raggiunto la vetta e guardano tutti dall'alto, io voglio superarli tutti e andare più in alto ancora". La finale è bloccata, senza tiri in porta, un fuorigioco sbagliato manda Drogba in porta, Sunzu lo atterra ed è rigore, a 20' dalla fine. Tutto è apparecchiato al meglio: Drogba segna il rigore, vince un trofeo con la sua nazionale e la abbandona da vincente... E Benni ancora ci sovviene a descrivere il momento: "Era fuori, fuori, fuori / il fallo era fuori dall'area / quel ******* d'arbitro è arrivato / ha fischiato. / Solo davanti a voi centomila / che ansiosi mi spiate. / Solo quando c'è il rigore / vi ricordate di me, / del vostro portiere / ditemi perché. / E dai tira, tira, tira / cosa aspetti a finirmi? / vedo il pallone calciato che arriva / come una locomotiva / e sono solo nel cielo / mentre volo incontro al tiro / e voi trattenere il respiro". Con quegli occhi grandi e neri, anche il Didier che ha vinto Champions da solo e che da solo aveva trascinato quella squadra resta ipnotizzato, il suo rigore è potente e centrale, ma Mweene intuisce e la sfiora di quel tanto che basta per mandarla sopra la trasversale. La gara resterà noiosa sullo 0-0 con un solo brivido a poco dalla fine dei supplementari ancora risolto con un'uscita tempestiva del portierone. Si va ai rigori e nei 5 dello Zambia chi è il terzo a tirare??? Ancora lui. Palla nel sette, piazzata lì dove ci sono le ragnatele e qui prendiamo a oggetto una famosa frase dei video sportivi su Youtube: "try to beat me?" Arriverà la vittoria con un rigore parato al 12° penalty, per lui il premio di miglior portiere della competizione ma soprattutto l'onore di aver portato il suo paese lì dove non era mai arrivato. I tempi passano, il mister Hervè Renard non continua e dopo tante tribolazioni la squadra è agli inizi di questo 2014 invischiata nelle qualificazioni per la Coppa d'Africa del prossimo Gennaio. Una pesante sconfitta contro Capo Verde 3-1 e due pareggi anonimi contro Mozambico e Niger sembrano frenare qualsiasi ambizione. Non avendo visto le gare, cerco sul sito qualche info supplementare e Kennedy non c'è. Rottura del crociato, la sua assenza si fa sentire. E' un iron man, o forse uno sciamano chi lo sa, lui torna a tempo di record per la sfida contro il Niger e al 65' siamo ancora 0-0 quando viene fischiato un rigore ai "proiettili di rame". 
La tensione è alta ed il momento è catartico, lui passeggia per tutto il campo, arriva nell'aria opposta a quella di sua competenza, si prende il pallone in mano e tranquillizza tutti. Batte un rigore di potenza che gonfia la rete, senza possibilità per il collega e lancia una vittoria per 3-0 che scuote l'ambiente. Il capolavoro lo compie qualche mese dopo, in quello che è un autentico spareggio contro il
Trasforma il rigore che spiana la strada contro il Niger
Mozambico, a Maputo, in trasferta. Per i Chipolopolo la vittoria è d'obbligo, ma i padroni di casa non ci stanno e spingono sull'acceleratore. Al 58' l'arbitro fischia a Mbola un fallo di mano dubbio, e sul dischetto per i Mambas si presenta Pelembe, che da un anno è compagno di squadra di Mweene al Mamelodi. I due si guardano, sorriso di sfida sul volto del #16 che rimane teso, concentrato e scatta dalla parte giusta bloccando e rilanciando l'azione, perchè non c'è tempo per festeggiare. Singuluma poco dopo porterà il gol vittoria che vuole dire qualificazione, rendendo ininfluente l'ultimo turno a Lusaka contro Capo Verde, dove arriverà il terzo clean sheet consecutivo dal suo ritorno. Dire che sia fuori dal comune è poco, dire che ha rifiutato le sirene ed i dollari cinesi (dove lo han chiamato molti suoi compagni) fa capire cosa sia per lui il calcio, ma vi è di più. Potete avere i vostri idoli, o magari i campioni che vi fanno vincere le partite con goal assurdi come Messi o CR7,
Ma se volete una storia da raccontare, quelle da love of the game, e che hanno al centro come succosa salsa piccante misticismo, anatemi, scongiuri e anche un filo di pathos, beh quella di Kennedy Mweene può fare al caso vostro. A breve lo Zambia non partirà favorito, anche perchè molti dello storico 2012 hanno abbandonato la nazionale o sono ko per infortunio. Ma a guidare un'accolita di giovani di belle speranze (occhio a Kalaba, chiamato il Kaiser da quando aveva 18 anni) ci sarà sempre quel portiere, ultimo baluardo sì, ma anche all'occorrenza primo avamposto utile per superare qualsiasi difficoltà.

Domenico Landolfo 

giovedì 8 gennaio 2015

OPEN

Bene,
questo è il mio primo pezzo e diciamo che è un po’ come la prima pallina di Andrè.
Il padre dispotico e il ‘drago sputa palle’ lanciavano a tutta forza piccole schegge da colpire e Andrè faticava a mantenere la racchetta all’inizio, come io fatico a mantenere questa penna. Ma solo perché è la prima, sia chiaro.
In copertina c’è il faccione senza più capelli di Agassi e dentro tutta la sua storia.
Alti e bassi di una vita veloce e piena di pezze e colla, come quella che si metteva in testa per mantenere il parrucchino attaccato. Si, avete capito bene. Quel fantastico look anni ’80 di Andrè Agassi era fittizio. Non ridete! Ok, si… un po’ potete ridere.
Aveva insomma la colla sotto i capelli e racconta che una volta in campo è dovuto correre di sotto ad attaccarseli quando tutto il mondo voleva avere i pantaloncini di jeans e il ciuffo come il suo.
Com’è strana la vita degli sportivi.
Tutti ti osannano e tu fatichi a fartene una di vita.
Agassi è stato proprio così.
Un padre che lo ossessionava: ‘Più palline colpisci e più il ranking Atp è tuo’. Potremmo dire che alla fine aveva ragione, ma qual è il prezzo da pagare!? Ancora non lo sappiamo, ma dalle sue pagine sappiamo che è servito a conquistare la donna sul poster della cameretta che divideva col fratello, anche lui col riporto incollato. Sarà stata una cosa di famiglia, ragazzi…
L’odio e l’amore. Detesta quelle palline ma poi non riesce nemmeno a guardare un mondo in cui non le può toccare.
Un matrimonio fallito. E uno felice.
Sampras. Vinci, perdi, vinci, perdi, perdi, perdi, vinci, lui si ritira, tu continui, vinci, perdi, vinci. Sempre tu e lui.
La droga. Il buio. La risalita.
E in mezzo tante foto della vita felice fatta di completini fashion, famiglia e sorrisi.
Consiglio di leggerlo ai curiosi, agli estimatori e a chi negli anni passati guardava Borg e Becker lottare strenuamente come adesso Nole, Nadal e Federer per un posto nell’olimpo.
E lo consiglio pure agli amanti del calcio, così possono capire che lo sport non è diviso in categorie e federazioni ma unito da sacrifici e vite dure.
Onore a chi racconta le proprie debolezze.


Tiziana Tavilla

Voto 8.
Open, la mia storia. Andrè Agassi.
Einaudi, 2011.
Si trova in tutte le librerie e Amazon

Costo 20 euro

martedì 6 gennaio 2015

MANCOSU OLTRE L’ULTIMO SECONDO

Il rigore trasformato da Mancosu
(Foto Giuseppe Scialla)
Un’attesa lunga quasi 22 anni esatti (l’ultima sfida ufficiale risale al 1 febbraio 1993) e quel giorno, all’Arechi, la fucilata al 93’ regalò la gloria eterna a Claudio Fermanelli. Oggi, 22 anni dopo, con un rigore al 94’, Marco Mancosu si è guadagnato un posto nella storia. Non sarà una partita famosissima in giro per l’Italia pallonara, ma Casertana contro Salernitana è sicuramente uno di quei match che devi vedere. Se poi sei o casertano o salernitano, hai tanti ricordi che ti legano a questo match diverso dagli altri. Questo blog vuole raccontare le emozioni ed oggi mi svesto dai panni del cronista per indossare quelli del tifoso rossoblù. Tifoso della squadra della mia città.

La sveglia presto come non succede mai. Il biglietto c’è, la sciarpa è lavata, si può scendere in strada. I primi amici, la colazione e le bollette (avevo 1X sia chiaro), altri amici e l’attesa che corre via veloce. Ancora amici, sciarpe e sguardi, la partita si avvicina. L’ingresso, i controlli della polizia, la coreografia nella vecchia curva, il posto nei distinti ed il tempo che non passa mai. L’arrivo del pullman della Salernitana preceduto dall’aereo della polizia, i fischi, i cori. Arrivano i tifosi granata, inizia ufficialmente il derby. La magnifica coreografia anche se ero sotto uno delle strisce blu e dopo l’ho ammirata. Il sole da un lato, il vento dall’altro, freddo, caldo, le azioni. I cori storici, di una rivalità eterna accompagnano le squadre in campo. Non si supera mai il limite da entrambi i lati, bene così. Non si sblocca il match. Rischiamo parecchio nei primi 35’, rischiano loro dopo. Il panino con la mortadella gentilmente offerto che va diviso con gli amici nelle vicinanze. Il vento ti taglia il viso. Si va verso lo 0-0 con un po’ di rammarico per l’occasione sprecata di battere la capolista. Diakitè steso (per me non era rigore ma ancora non l’ho rivisto). Fischio, guardo l’arbitro, temo la simulazione, dito rivolto al dischetto. Nessuno ci crede. Mancosu e Carrus sul dischetto, la gente continua a non crederci. Va Mancosu. C’è chi vede, chi dà le spalle al campo, chi prega, chi già piange. Tiro, palla perfettamente nel sette. Gol, bolgia, colore e calore. Non si sente neanche il fischio finale. Tutti sotto i distinti, cori, sberleffi. Anche Sasà sotto i tifosi a festeggiare. La voglia di non uscire mai dal Pinto. E’ una gioia immensa che solo un casertano può capire. Grazie, possiamo ‘morire’ anche ora.



Camillo Anzoini

lunedì 5 gennaio 2015

QUANDO PINO CANTO’ DIEGO

Pino Daniele ha cantato Maradona
Non sono mai stato un fan scatenato, ma il primo concerto che ho visto fu uno del suo tour ‘Non calpestare i fiori nel deserto’. Dico questo per non prendermi la paternità di essere un immenso conoscitore della storia musicale di Pino Daniele che, ieri notte, ci ha lasciato. Pino è Napoli, Napoli è Pino e quella ‘Napulè’…. puoi essere napoletano o no, ma ti devi emozionare sempre quando l’ascolti. Il ricordo, la storia, la carriera di Pino deve essere scritta da gente che lo conosceva, lo apprezzava più di me. Io voglio ricordarlo quando cantò Diego, perché Diego è Napoli, Napoli è Diego. Come Pino. E questi due fuoriclasse dovevano incontrarsi, per forza, anche tra le note di una delle chitarre più emozionanti della storia della musica italiana. Voglio ricordarlo così, voglio ricordarlo con ‘Tango della buena sorte’. Ciao Pino, voc ‘e Napulè.


Camillo Anzoini



TESTO

Maradona con la maglia del Napoli
Lui è un mago con il pallone.
Io l'ho visto alzarsi da terra e tirare in porta.
Soffia il vento d'Argentina
davanti agli occhi spalancati e pieni di grande speranza.
E al momento giusto suona il tango per magia
lui è l'uomo giusto che ci può far vincere.

ma la partita più importante è da giocare con la vita
stando a metà del campo mentre Chico corre intorno al mondo.
Noi non abbiamo ancora imparato questa lezione
e a luci spente suona il tango per magia.
Resterà qui per sempre come un fermo immagine.
Chico buona fortuna
e al momento giusto suona il tango per magia.
Lui è l'uomo giusto che ci può far vincere.
Tango della buena suerte
Tango della buena suerte


sabato 3 gennaio 2015

A SCUOLA IN ITALIA

Lo sguardo 'assassino' del Mamba
Parole vere, genuine e schiette: la differenza tra il basket europeo e quello americano condensato in poche frasi. Spiega il tutto, Kobe Bryant cresciuto cestisticamente in Italia ma stella negli States. Silenzio, ascoltare e memorizzare: «I giocatori europei sono molto più tecnici degli americani, in Europa insegnano a giocare a pallacanestro sin da piccoli, hanno più tecnica. È qualcosa che qui in America dobbiamo sistemare, dobbiamo insegnare ai più piccoli a giocare. Qui si insegna un basket ridicolo, i fondamentali vengono trascurati, per questo abbiamo giocatori come i fratelli Gasol e gli Spurs hanno il 90% del roster composto da giocatori europei. Se non fossi cresciuto in Italia non avrei imparato a palleggiare, a tirare con la sinistra e ad avere un corretto movimento dei piedi. Mentre ero in Italia ho avuto la fortuna di assistere ai clinic di Red Auerbach e Tex Winters. Io, Manu ed altri nati in quegli anni siamo stato figli di quelli insegnamenti. Gli allenatori Americani dovrebbero insegnare i fondamentali ai bambini e non trattarli come “vacche da soldi” traendone profitti».

venerdì 2 gennaio 2015

DI CORSA VERSO GLENDALE

Il logo del prossimo SuperBowl
La corsa che porterà il prossimo 1 Febbraio a Glendale, Arizona, sul campo della University of Phoenix, uno dei campus più multiculturali dell'intera nazione, sarà irta di insidie per tutte le franchigie Nfl, ma il tempo della regular season e delle chiacchiere è finito e quindi vale la pena ricapitolare, tirare le somme, e stilare qualche giudizio in attesa del grande evento. 

SITUAZIONE TESTE DI SERIE
NFC: A dominare in questa Conference sono state due squadre: New England, aggrappata ai suoi veterani e a un Brady che, seppur non sempre continuo, sta dando grande geometria al suo gioco, nonchè alla difesa che ha concesso poco. Saranno loro la numero #1 da questa parte del tabellone. Dietro di loro, stesso record e dente avvelenato dopo lo scorso anno, i Denver Broncos di Payton Manning, leader più spirituale del solito, che non vincerà il titolo di miglior quarterback della lega almeno per quanto fatto finora, ma che potrebbe avere qualche cartuccia da sparare per la post season. Sono loro la numero #2.
AFC: In pochi si sarebbero  aspettati Seattle alla numero #1 anche quest'anno. In una conference tanto equilibrata dopo un avvio pessimo e una sconfitta casalinga da parte dei Cowboys da leggenda per Tony Romo, nessuno poteva pronosticare una difesa, che è partita dalla difesa, il vero marchio di fabbrica dei Seahwks, che non hanno concesso quasi niente nei match che contavano. #2 per i Green Bay, squadra che ha costruito il suo ranking sulle vittorie casalinghe, che magari non avrà il talento delle altre candidate, ma che di sicuro con un Farve ai limiti del paranormale può togliersi tante soddisfazioni, anche perchè la semifinali sarà sul proprio campo.


Lo scorso anno vinsero i Seahawks
WILD CARDS
NFC: Nella corsa a chi beccherà i Patriots, forse la sfida più equilibrata è quella tra i Baltimore Ravens e gli Steelers di Pittsburgh, squadra favorita ma al tempo stesso parecchio discontinua. Una partita folle nell'ultima giornata ha portato i purple di Joe Flacco a conquistarsi la post season, estromettendo squadre con molto più gioco offensivo. Pittsburgh ha gran gioco sui passaggi, ma una difesa che non arriva sempre puntuale a fermare gli avversari, ma col vantaggio del fattore campo può dire la sua. La sfida che tutti attendono è quella tra Bengals e Colts. Cincinnati è la sorpresa della stagione e pur con un Qb non di grido come Dalton ha costruito con la difesa i suoi successi. I Colts di Luck (che si è scrollato di dosso il record di yards su passaggio di Manning in stagione regolare) sono stati sempre al vertice e attendono il ritorno ad una gara che conta. Lo spettacolo vorrebbe Cincinnati, il Manning against his past chiama invece Indianapolis, staremo a vedere.
AFC: A decidere chi affronterà Seattle saranno la sorpresa dell'anno, i Detroit Lions, che se la vedranno contro i Cowboys. I texani quest'anno hanno centrato un ottimo record, pari a quello delle prime teste di serie, ma svantaggiati da scontri diretti e scarti si ritrovano a giocare una semifinale pericolosa contro un avversario che non ha nulla da perdere e che costruisce su una grande coesione il suo gioco. Romo ha finalmente giustificato il suo cachet con una stagione importante e trovare la già battuta Seattle, seppur da affrontare on the road, potrebbe essere il viatico per sogni di gloria. Last but not least (o forse no), Arizona contro Carolina è la gara con meno appeal ma che sarà la più incerta. I Panthers sono la cenerentola del gruppo, avendo vinto solo la loro Division (7v - 8s - 1pari con la prima delle escluse, Philadelphia, che aveva 10-6 di record) all'ultima giornata contro una derelitta Atlanta, sempre peggio nonostante il suo Ryan. Giocare tra l'altro in casa, contro gli Arizona Cardinals, altra sorpresa, ma che si presenteranno al grande appuntamento in fase calante e acciaccati e non poco, dà alle Pantere un piccolo vantaggio inerziale.

Lo stadio di Glendale 'scenario'
del XLIX SuperBowl 
SFORTUNELLI E DELUSIONI
NFC: Houston e Kansas City sono state scippate di un posto che forse meritavano, ma entrambe pagano le tante sconfitte contro squadra da ranking positivo e qualche passo falso in trasferta. Peggio fa San Diego che dopo un inizio scintillante tra infortuni e spogliatoio in crisi è precipitata in classifica, perdendo lo scontro diretto contro i Chiefs all'ultima che avrebbe cambiato la loro intera stagione. Malissimo, nei bassifondi e forse anche più Jets, Jaguars, Raiders e Titans che in 4 sommano 12 vittorie...
AFC: Sfortunella dell'anno è Philadelphia, che se è vero che ha perso i suoi pezzi pregiati a metà campionato, viene scalzata per le leggi delle altre Division sul filo di lana seppur con record accettabile.  Ciotando Califano, tutto il resto è noia: New Orleans e San Francisco sono scomparse, Falcons, Bears, Buccaneers e Redskins da rifare da capo, mentre in prospettivo occhio ai Giants e ai Viking che possono dire la propria in futuro.


Domenico Landolfo



Mi prendo i miei rischi ed ecco il mio tabellone

CINCINNATI
INDIANAPOLIS
                                                   CINCINNATI
Bye                                             DENVER
DENVER
                                                                                           DENVER                                                                                         
                                                                                           NEW ENGLAND
BALTIMORE
PITTSBURGH
                                                   PITTSBURGH
Bye                                             NEW ENGLAND
NEW ENGLAND

                                                                                                           DENVER                                                                               
                                                                                                           vs                         DALLAS

                                                                                                            DALLAS

ARIZONA
CAROLINA
                                                    CAROLINA
Bye                                             GREEN BAY
GREEN BAY
                                                                                                CAROLINA
                                                                                                DALLAS

DETROIT
DALLAS
                                                    DALLAS
Bye                                             SEATTLE
SEATTLE