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Abdallah Jaber ed il suo look alla Vidal |
Ore 7.45, suona
la mia sveglia. Ore 8, nel cielo di Newcastle (in Australia) si alzano le note
dell’inno nazionale. Occhi lucidi, sguardi fieri, cuori gonfi: la Palestina
debutta nell’Asian Cup 2015 (l’equivalente del nostro Europeo). E’ la prima
volta ufficiale per la giovane nazionale araba in questa competizione così
importante e affascinante che blocca un intero continente per tre settimane
intorno ad un pallone. L’inno cantato a squarciagola sotto due gocce d’acqua in
mezzo al sole; le bandiere che sventolano fiere da parte degli immigrati o
rifugiati, le donne con le kefie, i ragazzini, gli adulti con le trombette. E
c’è il look di Abdallah Jaber che sembra Arturo Vidal. Si gioca in Australia
perché la federazione aussie è affiliata alla confederazione asiatica ormai da
anni. Dall’altro lato c’è il Giappone, una vera potenza continentale guidata
dal messicano Javier ‘El vasco’ Aguirre e forte di
giocatori come Honda, Nagatomo e Kagawa. Il cliente peggiore per cominciare questo
cammino, ma il risultato oggi non conta. Conta esserci con la propria divisa
rossa ed il simbolo sul cuore. Il primo obiettivo, comunque, è difendersi dalla
furia dei Blue Samurai; il muro palestinese resiste 8’ prima che il veterano
Yasuhito Endo buchi capitan Saleh dalla lunga distanza. Al 24’ anche la
sfortuna ci si mette: una carambola permette a Okazaki di raddoppiare. Piace
sempre la sportività palestinese; ogni volta che viene steso un nipponico, una
stretta di mano e le scuse. Merce rara in questo calcio moderno. Al 42’ ci si
mette anche l’arbitro assegnando un generoso rigore al team del Sol Levante:
facile trasformazione di Honda.
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Sakai entra duro sulla stella Al Fawaghra |
I ragazzi guidati da Al Hassam incassano il
quarto gol in avvio di ripresa quando Yoshida fa valere i centimetri e segna
con una bella capocciata. Viene espulso Mahajna per doppia ammonizione, nella
ripresa fioccano i ‘gialli’ e gli interventi duri più per stanchezza che per
reale cattiveria. Il talento Al Fawaghra, che si ispira a Cristiano Ronaldo, fa
vedere qualche bel numero. Il migliore in campo è il portiere e capitano Ramzi
Saleh che, tra uscite spericolate, dribbling e parate, è il mio mvp. Finisce
4–0 ma fa nulla. La Palestina, seppur giovane come nazionale di calcio, occupa
il posto 115 del ranking Fifa ed è quattordicesima a livello continentale. Ha
staccato il biglietto per l’Australia vincendo la Challenge Cup dove,
nell’ordine, ha eliminato il Kyrgyzstan, Myanmar (l’ex Birmania), Afghanistan e
le Filippine nella finalissima. Già essere qui è un motivo di vanto ed
orgoglio, già poter vedere la propria bandiera sventolare deve essere un
segnale di speranza da lanciare al mondo. Una nazionale che, nel corso della
sua giovane storia, è stata decimata con ben quattro nazionali uccisi nei vari
raid israeliani o addirittura arrestati. Un pallone non potrà mai alleviare le
sofferenze, ma nelle due ore del match sicuramente il popolo palestinese si è
unito ancor di più. Retorica? Forse sì, ma anche no se si pensa alla potenza
dello sport, del calcio: 90 minuti per sognare e poi di nuovo a vivere la
propria difficile esistenza. La Palestina ha dato un calcio ad un pallone
sull’erba australiana, sembra poco ma non lo è.
Camillo Anzoini
L’inno
palestinese prima del match
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